Il Presidente ci pensò su un momento. — Credo che sia meglio farlo subito — disse poi. — I militari hanno posto la censura e i posti di blocco, ma non sarebbe possibile tenere a lungo nascosta la cosa. Alcuni rappresentanti dell’opposizione hanno chiesto di conferire con me. Penso che sia meglio divulgare la notizia prima della loro venuta.
— C’è ancora un’altra cosa — disse Wilson. — Siccome non era urgente, non ho voluto svegliarvi. C’è una borsa piena di diamanti…
— Diamanti? Cosa c’entrano adesso i diamanti?
— È una cosa un po’ imbarazzante — proseguì Wilson. — Ricordate la borsa che Gale aveva con sé?
— Conteneva dei diamanti?
— Era piena zeppa di sacchetti di pietre preziose. Gale ne ha aperto uno e me ne ha mostrato il contenuto. Diamanti splendidi. Ha detto che anche gli altri sacchetti contenevano diamanti, e gli credo. Pare che i profughi li abbiano portati per sdebitarsi in qualche modo con noi.
— Mi sarebbe piaciuto vedere la tua faccia quando ti ha mostrato i diamanti — disse il Presidente. — E tu cos’hai fatto?
— Ho chiamato Jerry Black e gli ho raccomandato di non perdere di vista Gale un minuto. Ho pensato che fosse meglio che continuasse a tenere lui le pietre, per il momento.
— Già, non vedo che altro avresti potuto fare. Ne parlerò al Segretario al Tesoro e controllerò col procuratore generale gli aspetti legali della questione, prima di accettare le pietre. Sai a che valore ammontino?
— Gale dice che ai prezzi attuali superano il trilione di dollari. Naturalmente bisognerebbe venderli poco per volta per non provocare il crollo dei prezzi. E non sono solo per noi. Gale li ha consegnati a noi dicendo di aver più fiducia nel governo degli Stati Uniti che in quello di altri Paesi, però con il ricavato della vendita si dovrebbe costituire un fondo comune.
— Ti rendi conto di che gatta da pelare ci hanno dato? Se la notizia trapela…
— Bisogna apprezzare il gesto — ribatté Wilson. — Loro l’hanno fatto per sdebitarsi in qualche modo e pagarsi il biglietto per il Miocene.
— Certo, capisco. Staremo a sentire che cosa ne dice Reilly.
Fin dalle prime ore del mattino, la folla aveva cominciato a radunarsi nel Parco Lafayette, al di là della strada, di fronte alla Casa Bianca. Era una folla calma e silenziosa, come quella del giorno prima, ma adesso campeggiavano qua e là dei cartelli. Su uno era scritto a grandi lettere rozze:
ANDIAMO NEL MIOCENE.
Su un altro:
PORTATEVI LA VOSTRA TIGRE.
E su un terzo:
PIANTIAMO QUESTO MONDO SCHIFOSO.
Un giornalista si fece strada in mezzo alla calca puntando verso il giovanotto zazzeruto che reggeva il primo cartello.
— Cosa sta succedendo? — domandò. — Cosa volete?
— Non sai leggere? — replicò brusco l’altro — e sì che è chiaro.
— Non riesco a capire cosa volete dimostrare.
— Niente, stavolta non vogliamo dimostrare niente. Nel passato ci abbiamo provato, e cosa abbiamo ottenuto? Niente. Lui là — disse indicando la Casa Bianca — è sordo. Tutti sono sordi, oggi.
— Non vogliamo dimostrare né provare niente — disse di rincalzo una ragazza che stava lì vicino. — Ci limitiamo a dire che vogliamo andare nel Miocene.
— O anche nell’Eocene o nel Paleocene — aggiunse una seconda ragazza. — In qualunque posto purché sia lontano da questo schifo di mondo. Vogliamo ripartire da zero. Vogliamo costruire un mondo nuovo, come lo desideriamo noi. Sono anni che facciamo di tutto per cambiare la società, senza aver ottenuto un cavolo. Visto il risultato, pensiamo di piantare qui tutto e ricominciare daccapo da un’altra parte. Ma la società non ce lo permetterà di certo.
— Abbiamo trovato finalmente il sistema di farla finita qui. Se quella gente è capace di andare nel passato, non c’è motivo perché non ci andiamo anche noi — disse il giovane. — Secondo me, un mucchio di gente sarebbe felice di vederci andar via.
— Immagino che si tratti di un nuovo movimento — disse il cronista. — In quanti siete?
— Oh, per adesso siamo solo una ventina — disse la prima ragazza — ma scrivetelo sui giornali, ditelo alla TV e vedrete che diventeremo subito migliaia. Verranno da Chicago, da New York, da Boston, da Los Angeles. Perché, vedete, questa è la prima vera occasione che ci si offre.
— Avete ragione — disse il giornalista. — E vi capisco. Ma come pensate di riuscirci? Con delle dimostrazioni? Andando a bussare alla Casa Bianca?
— Se volete dire che nessuno baderà a noi, avete ragione — disse il giovanotto. — Ma fra ventiquattr’ore dovranno per forza accorgersi di noi. E fra quarantotto verranno a patti.
— Ma sapete benissimo che i tunnel temporali non sono stati ancora costruiti — obiettò il giornalista. — E forse non lo saranno mai. Ci vogliono attrezzature, materiale, manodopera…
— Manodopera possono averne finché gliene pare. Ci diano picconi e badili e siamo pronti a dare una mano. Gratis. Non chiediamo altro che il permesso di andarcene.
— Scrivetelo — disse la seconda ragazza. — Fateglielo capire.
— Non abbiamo intenzione di fare casino — promise il giovane. — Niente chiasso né violenza. Vogliamo solo che sappiano, e l’unico modo è questo.
— Non vogliamo niente — ripeté una ragazza. — Del resto l’uomo delle caverne è pur partito da zero, no? Anche noi faremo così.
— Ma cosa state a dar retta a questi matti! — intervenne un omaccione col sigaro in bocca. — Non fanno che blaterare. Hanno la testa piena di balordaggini. Non vogliono andarsene, vogliono solo far chiasso e creare disordini.
— Avete torto — ribatté il giovane col cartello. — Quello che abbiamo detto è la sacrosanta verità. Vogliamo andare nella preistoria, tutto qui. Cosa vi fa credere che abbiamo tanta voglia di restare qui insieme a degli imbecilli come voi?
L’uomo col sigaro afferrò l’asta del cartello, e una delle ragazze gli mollò un calcio in uno stinco. L’uomo vacillò, lasciò la presa, e il giovanotto gli calò il cartello sulla testa.
Un tizio che stava vicino all’omaccione colpì il giovanotto con un pugno. Scoppiò un tafferuglio, e la polizia accorse a ristabilire l’ordine.
Judy era al suo posto di lavoro. Gli appunti andavano accumulandosi e le spie luminose lampeggiavano sulla sua scrivania.
— Sei riuscita a dormire? — le domandò Wilson.
— Un po’ — rispose lei alzando gli occhi a guardarlo. — Sono rimasta sveglia a pensare. Ho paura. Le cose non si mettono bene, vero, Steve?
— No — rispose lui. — È che abbiamo troppa carne al fuoco. Impossibile far subito fronte a tutto. Se ci fosse più tempo, potrebbe andar meglio.
— Questo non l’hai detto alla stampa, vero?
— No, e non glielo dirò neanche.
— Fra poco verranno a chiedere quando potrai parlare.
— Lo farò tra poco.
— Senti — riprese Judy — è inutile che aspetti a dirtelo. Ho deciso di tornare a casa, nell’Ohio.
— Ma abbiamo bisogno di te, qui.
— Potete sostituirmi con una delle dattilografe. Dopo un paio di giorni non ti accorgerai della differenza.
— Non era questo che volevo dire…
— So cosa volevi dire. Hai bisogno di me come donna. Da quanto dura? Da sei mesi ormai. Colpa di questa città che sporca tutto quello che tocca. Da un’altra parte sarebbe andata in maniera diversa, meno sordida…
— Ma, Judy, accidenti, cosa ti piglia adesso? Solo perché stanotte non sono tornato a casa…
— Non è solo per questo. So perché sei dovuto restare qui. Ma mi sentivo così sola, ed erano successe tante cose, e avevo paura. Ho cercato di chiamare la mamma, ma le linee erano sovraccariche. Proprio come una bambina spaventata che corre dalla mamma… Davvero, sai? Non ero più la ragazza sicura di sé, smaniosa di far carriera a Washington, ma una bambinetta con le treccine, proveniente da una sperduta cittadina dell’Ohio. Tutto perché avevo paura. Dimmi, ero esagerata?
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