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Clifford Simak: Il cubo azzurro

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Clifford Simak Il cubo azzurro

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Tutto ha inizio quando il professor Edward Lansing decide di scoprire chi ha realmente scritto un magnifico saggio su Shakespeare consegnatogli da un suo studente e viene a sapere che l’alunno l’ha comprato, pensate un po’!, da una slot machine. Una rapida investigazione ed ecco che il professor Lansing si trova di fronte alla macchinetta: questa gli dà due chiavi e lo manda alla ricerca di un’altra slot machine. La terza slot machine infine si prende il suo denaro e lo trasporta in un nuovo mondo. Qui Lansing incontra uno strano assortimento di compagni di viaggio, tra cui un prepotente brigadiere, un prete pomposo, una donna ingegnere, una poetessa e un simpatico robot, tutti ignari e perplessi come lui. Allontanati dalle loro linee temporali e scaraventati in questo nuovo mondo, sono tutti giocatori in un gioco senza regole e apparentemente anche senza scopo. Comincia così un viaggio straordinario che porterà i nostri forzati avventurieri prima a un immenso cubo azzurro e poi a un’antica e misteriosa città: scopriranno allora di dover risolvere un enigma fondamentale, la cui soluzione garantirà loro un ruolo di rilievo nello sviluppo della società galattica.

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— Ecco, non posso esserne sicura. Ma credo di non sbagliare. Ricordi le pietre piatte che abbiamo trovato? Le tre lastre nella sabbia? Abbiamo dovuto toglierla, per scoprirle. Le copriva completamente.

— Sì, le ricordo. Ieri i giocatori di carte stavano seduti su una delle tre.

— I giocatori di carte? E perché i giocatori di carte dovrebbero…?

— Lascia stare, per il momento. Cosa dicevi delle pietre?

— E se ce ne fossero altre? Altre pietre che formano una passerella e portano al cubo? Tre passerelle per il cubo. Messe in modo che chiunque lo voglia possa arrivare al cubo, al sicuro da ciò che lo difende. Ma coperte dalla sabbia, in modo da non essere visibili.

— Vuoi dire…

— Diamo un’occhiata — disse Mary. — Possiamo tagliare il ramo di un albero o di un arbusto e usarlo come scopa.

— L’userò io come una scopa — disse Lansing. — Tu stai tranquilla in disparte.

— D’accordo — disse Mary, docilmente. — Starò dietro di te.

Trovarono un arbusto e lo tagliarono.

Quando si avvicinarono al cerchio di sabbia, Mary disse: — Il cartello è caduto. Il cartello in russo. Tu l’avevi piantato di nuovo, e adesso è a terra, coperto quasi completamente dalla sabbia.

— Qui c’è qualcuno — disse Lansing, — che si dà da fare per rendere la vita difficile alla gente. I biglietti si perdono, i cartelli cadono, le passerelle sono coperte. Da quale pietra dobbiamo incominciare?

— Non penso che abbia importanza. Se una non va, proveremo con le altre.

— Se ci sono altre pietre, se esiste una passerella. Che cosa faremo, quando arriveremo al cubo?

— No lo so — disse Mary.

Lansing salì sulla lastra di pietra e si accosciò, guardingo, all’estremità, protese il fascio di rami per rimuovere la sabbia. Affiorò un’altra lastra. Lansing continuò a spazzare.

— Hai ragione — disse. — C’è un’altra pietra. Perché non ci abbiamo pensato subito?

— Una svista — disse lei. — Causata dall’apprensione. Jurgens s’era appena infortunato, e c’eravamo spaventati per quello che era successo al reverendo e al generale.

— Io sono spaventato anche adesso — disse Lansing.

Ripulì l’estremità più vicina della seconda lastra, vi salì e spazzò via il resto della sabbia. Si sporse e usò di nuovo la scopa improvvisata. Affiorò un’altra lastra.

— Come beole — disse Mary. — Arrivano fino al cubo.

— E quando ci arriveremo, cosa succederà?

— Allora lo scopriremo — disse lei.

— E se non succederà niente?

— Bene — disse Mary, — almeno avremo tentato.

— Sì, credo che abbia ragione — disse Lansing.

— Un’altra lastra — disse, domandandosi se c’era. Sarebbe stato del tutto degno dei buffoni che avevano organizzato tutto quanto, predisporre un sentiero e non mettere l’ultima lastra.

Si chinò per spazzare, e l’altra lastra c’era.

Mary lo raggiunse. Si fermarono, fianco a fianco, di fronte alla faccia azzurro scura del cubo. Lansing tese la mano e passò il palmo sulla superficie.

— Non c’è niente — disse. — Fino a questo momento avevo pensato che potesse esserci una porta. Ma non c’è. Se ci fosse si vedrebbe almeno una fenditura sottilissima. Ma è soltanto un muro, niente altro.

— Spingilo — disse Mary.

Lansing spinse, e la porta c’era. La varcarono in fretta e la porta si chiuse dietro di loro con un sibilo.

XXX

Erano in una sala enorme, piena di luce azzurra. C’erano molti arazzi appesi alle pareti, e tra gli arazzi c’erano le finestre… i tratti di parete non mascherati. Sparsi qua e là c’erano gruppi di mobili. In un cestello imbottito, vicino alla porta, dormiva una bestiola raggomitolata. Sembrava un gatto ma non era un gatto.

— Edward — disse sottovoce Mary, — le finestre guardano sul mondo che abbiamo appena lasciato. Può darsi che ci fosse qualcuno, qui dentro, a osservarci… adesso e l’altra volta che siamo stati qui.

— Come un finto specchio — disse Lansing. — Un visitatore non può vedere niente, ma può essere visto dall’interno.

— Non è uno specchio — disse Mary.

— No, non lo è, naturalmente, ma il principio è lo stesso.

— Se ne stavano qui tranquilli — disse Mary, — a ridere di noi mentre cercavamo di entrare.

La stanza sembrava vuota. Poi Lansing li vide. Seduti in fila, su un grande divano in fondo, c’erano i quattro giocatori di carte; stavano seduti e attendevano, e li fissavano con quelle facce bianche simili a teschi.

Lansing toccò Mary e le indicò i giocatori. Quando lei li vide, indietreggiò rabbrividendo.

— Sono orribili — disse. — Non gli sfuggiremo mai?

— Hanno l’abitudine di ricomparire — disse Lansing.

Gli arazzi, notò, non erano arazzi normali. Si muovevano… o meglio, si muovevano le scene che vi erano raffigurate. Un ruscello scintillava al sole, e le increspature e i piccoli vortici formati dall’acqua che scendeva un pendio sassoso erano increspature e vortici veri, non dipinti. I rami degli alberi che crescevano lungo il ruscello stormivano nel vento, e gli uccellini svolazzavano qua e là. Un coniglio si acquattò per mangiucchiare un ciuffo di trifoglio, poi saltellò un po’ più lontano e riprese a mangiare.

In un altro arazzo alcune fanciulle abbigliate di veli trasparenti danzavano agilmente in una radura al suono del flauto di un fauno che danzava a sua volta, con più energia anche se con minor grazia, battendo ritmicamente gli zoccoli sulle zolle. Gli alberi che circondavano la radura, giganteschi e nodosi, ondeggiavano al suono della musica, danzavano anch’essi al suono del flauto.

— Tanto vale — disse Mary, — che attraversiamo la sala per vedere che cosa vogliono da noi.

— Se ci parleranno — disse Lansing. — Può darsi che si accontentino di guardarci.

Si avviarono. Era un distanza notevole e inquietante da percorrere, mentre i giocatori di carte li fissavano senza che un muscolo si muovesse sulle loro facce. Forse erano uomini (se erano uomini) che non potevano schiudere le labbra in un sorriso, non potevano ridere, non potevano essere umani.

Stavano seduti immobili, in fila sul divano, con le mani posate fermamente sulle ginocchia, e niente, nella loro espressione, indicava che vedessero qualcosa.

Erano così simili, come quattro piselli in un unico baccello, che Lansing aveva la sensazione che fossero, non quattro, ma un’unica entità. Non conosceva i loro nomi. Non aveva mai sentito i loro nomi. Forse non avevano neppure un nome. Per distinguerli l’uno dall’altro, assegnò loro identità arbitrarie. Incominciando da sinistra, li avrebbe chiamati A, B, C e D.

Risolutamente, Lansing e Mary attraversarono l’intera sala. Si fermarono a meno di due metri dai giocatori. Si fermarono e attesero. Per i giocatori di carte era come se loro non ci fossero.

Mi venga un accidente se sarò io il primo a parlare, si disse Lansing. Resterò qui fino a quando parleranno loro. Li costringerò a parlare.

Cinse con un braccio le spalle di Mary e la strinse a sé. Rimasero così, fianco a fianco, di fronte ai giocatori silenziosi.

Finalmente A parlò, muovendo appena appena lo squarcio sottile della bocca, come se fosse uno sforzo pronunciare le parole.

— Dunque — disse, — avete risolto il problema.

— Questa è una sorpresa — disse Mary. — Non sapevano di averlo risolto.

— Avremmo potuto risolverlo prima — disse Lansing, — se avessimo saputo di quale problema si trattava. O che c’era un problema. Ora, poiché dite che l’abbiamo risolto, che cosa succederà? Possiamo andare a casa?

— Nessuno lo risolve mai la prima volta — disse B. — Devono sempre ritornare.

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