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Clifford Simak: Il cubo azzurro

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Clifford Simak Il cubo azzurro

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Tutto ha inizio quando il professor Edward Lansing decide di scoprire chi ha realmente scritto un magnifico saggio su Shakespeare consegnatogli da un suo studente e viene a sapere che l’alunno l’ha comprato, pensate un po’!, da una slot machine. Una rapida investigazione ed ecco che il professor Lansing si trova di fronte alla macchinetta: questa gli dà due chiavi e lo manda alla ricerca di un’altra slot machine. La terza slot machine infine si prende il suo denaro e lo trasporta in un nuovo mondo. Qui Lansing incontra uno strano assortimento di compagni di viaggio, tra cui un prepotente brigadiere, un prete pomposo, una donna ingegnere, una poetessa e un simpatico robot, tutti ignari e perplessi come lui. Allontanati dalle loro linee temporali e scaraventati in questo nuovo mondo, sono tutti giocatori in un gioco senza regole e apparentemente anche senza scopo. Comincia così un viaggio straordinario che porterà i nostri forzati avventurieri prima a un immenso cubo azzurro e poi a un’antica e misteriosa città: scopriranno allora di dover risolvere un enigma fondamentale, la cui soluzione garantirà loro un ruolo di rilievo nello sviluppo della società galattica.

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Non si accorsero della sua presenza quando si avvicinò. Per un po’ rimase fermo a guardarli giocare.

Poi disse: — Credo di dovervi ringraziare, signori, per la corda che mi avete lanciato.

Al suono della sua voce, i quattro alzarono le teste, lo guardarono con le facce bianche di porcellana, con quelle orbite rotonde e prive di sopracciglia e quelle agate nere sospese nelle occhiaie, le fenditure gemelle delle narici, lo squarcio della bocca.

Non dissero nulla; rimasero a fissarlo, impassibili, anche se gli sembrò di scorgere un’espressione d’irritazione e di rimprovero nelle facce bianche e levigate così simili a maniglie rotonde sulle quali fossero stati tracciati i lineamenti.

Poi uno disse: — Scostati per favore. Ci togli la luce.

Lansing indietreggiò di un paio di passi e poi, dopo una sosta, arretrò ancora, fino a quando si trovò sulla strada. I quattro avevano ripreso a giocare.

Mary non era nella città, pensò; se ci fosse stata avrebbe visto il fuoco e l’avrebbe raggiunto. E non era lì. C’era ancora un luogo dove cercarla.

Proseguì ostinatamente lungo la strada, senza più speranza, ma spronato ancora dalla necessità di continuare la ricerca fino a quando non fosse più rimasto un altro posto dove andare.

Era scesa la notte, quando arrivò alla locanda. Dalle finestre non filtrava la luce, dal comignolo non usciva il fumo. Chissà dove, nella foresta, chiurlava un gufo solitario.

Si accostò alla porta e strinse la maniglia. Non si abbassò, sotto la pressione: evidentemente era chiusa a chiave. Bussò all’uscio e nessuno rispose. Smise di bussare e ascoltò, in attesa di sentire uno scalpiccio di passi all’interno. Non sentì nulla, e allora serrò i pugni e cominciò a tempestare di colpi la porta. La porta si aprì all’improvviso e Lansing, sbilanciato com’era, varcò la soglia barcollando.

L’Oste era lì, con una mano sulla porta aperta e l’altra che stringeva un mozzicone di candela. Alzò la candela perché la luce piovesse sul viso di Lansing.

— Ah, è lei — disse l’Oste con voce terribile. — Che cosa vuole?

— Sto cercando una donna. Mary. La ricorda?

— Non c’è.

— È stata qui? È venuta e se n’è andata?

— Non l’ho più vista da quando siete partiti.

Lansing gli girò intorno e si accostò al tavolo accanto al camino spento. Sedette su una sedia. Non aveva più fiato. Di colpo, si sentì debole e inutile. Era la fine. Non c’erano altri posti dove andare.

L’Oste chiuse la porta e lo seguì al tavolo, vi posò la candela.

— Non può restare — disse. — Me ne vado. Chiudo per l’inverno.

— Oste — disse Lansing, — sta dimenticando le buone maniere e i doveri dell’ospitalità. Mi fermerò questa notte, e dovrà procurarmi qualcosa da mangiare.

— Non ci sono letti disponibili — disse l’Oste. — Sono tutti disfatti e non intendo prepararne uno. Se vuole, può dormire sul pavimento.

— Sta bene — disse Lansing. — C’è qualcosa da mangiare?

— Ho preparato una pentola di zuppa. Può prenderne una scodella. C’è un avanzo di arrosto di agnello. E credo che potrò trovare un pezzo di pane.

— Basterà — disse Lansing.

— Lei sa, naturalmente, che non può restare. Domattina dovrà andar via.

— Sì, certo — disse Lansing, troppo stanco per discutere.

Restò seduto sulla sedia e guardò l’Oste che si avviava a passo pesante verso la cucina, dove brillava una luce fioca. La cena, pensò, e un pavimento per dormire, e l’indomani mattina se ne sarebbe andato. Ma dove? Si sarebbe avviato di nuovo lungo la strada, oltre il cubo, verso la città, sempre alla ricerca di Mary ma con scarse speranze di trovarla. Molto probabilmente, sarebbe finito nell’accampamento in riva al fiume, con gli altri sperduti che si arrangiavano a vivere alla meno peggio. Era una prospettiva sgradevole, e non voleva pensarci; ma probabilmente era l’unica possibilità che gli restava. E se avesse trovato Mary? Sarebbero stati costretti a cercare rifugio nell’accampamento? Rabbrividì.

L’Oste portò la cena e la sbatté sul tavolo davanti a Lansing, poi si voltò per andarsene.

— Un momento — disse Lansing. — Prima di ripartire, dovrò fare provviste.

— Posso darle tutti i viveri che vuole — disse il locandiere. — Ma il resto della merce l’ho già messo via.

— Va bene così — disse Lansing. — Ho bisogno soprattutto di viveri.

La zuppa era saporita; il pane era vecchio e duro, ma l’intinse nel brodo e lo mangiò. La carne d’agnello, soprattutto fredda, non gli era mai piaciuta, ma ne mangiò alcune grosse fette.

L’indomani mattina, dopo una notte di sonno inquieto e un piatto di crema d’avena servito controvoglia dall’Oste, Lansing acquistò una scorta di viveri, mercanteggiò sul prezzo e si rimise in cammino.

Il tempo, che si era mantenuto al bello dal momento in cui Lansing era giunto in quel mondo, si rannuvolò. Un vento freddo e tagliente soffiava da nord-ovest e a volte c’erano brevi raffiche di grandine che gli martellavano la faccia.

Quando scese la strada ripida nella conca dove stava il cubo, grigiocupo sotto il cielo nuvoloso, vide che i giocatori di carte non c’erano più.

Giunse ai piedi della collina e si avviò sul tratto pianeggiante, verso il cubo, con la testa china per proteggersi dal vento.

Sentì un grido e alzò la testa di scatto. Lei gli stava correndo incontro lungo la strada.

— Mary! — urlò, lanciandosi verso di lei.

Poi se la trovò fra le braccia, stretta a lui: le lacrime le rigavano le guance quando sollevò il viso per ricevere il suo bacio.

— Ho trovato il tuo biglietto — gli disse. — Mi sono affrettata. Per raggiungerti.

— Grazie a Dio sei qui — disse Lansing. — Grazie a Dio ti ho trovata.

— La locandiera ti ha dato il mio biglietto?

— Ha detto che gliel’avevi lasciato, ma l’aveva perduto. L’abbiamo cercato, abbiamo messo la locanda a soqquadro, ma non l’abbiamo trovato.

— Ti avevo scritto che sarei andata in città ad aspettarti. Poi mi sono smarrita nelle maleterre. Avevo abbandonato la pista e non sono riuscita a ritrovarla. Ho vagato per giorni, senza sapere dove fossi, e poi sono salita su una collina e ho visto la città sotto di me.

— Io ti ho cercato da quando sono tornato alla torre che canta. Ho trovato Sandra morta e…

— Era morta prima che me ne andassi. Avrei voluto restare, ma poi è apparso il Lamentatore. Continuava ad avvicinarsi, sempre di più. Ho avuto paura… Dio, che paura! Mi sono messa in cammino per raggiungere la locanda, e quella bestia mi ha sempre seguita. Sapevo che saresti venuto alla locanda a cercarmi, ma la padrona mi ha ordinato di andarmene. Non avevo denaro e non mi ha permesso di restare, perciò ti ho scritto la lettera e sono ripartita. Il Lamentatore non è più comparso, e sembrava che tutto andasse bene, ma poi mi sono perduta.

Lansing la baciò. — Adesso è tutto a posto, — disse. — Ci siamo ritrovati. Siamo insieme.

— Dov’è Jurgens? È qui con te?

— Si è perduto. È precipitato nel Caos.

— Il Caos? Edward, che cos’è il Caos?

— Te lo dirò più tardi. Ne avremo tutto il tempo. Jorgenson e Melissa sono tornati dall’ovest, ma non sono venuti con me.

Mary si svincolò gentilmente.

— Edward — disse.

— Sì, Mary?

— Credo di aver trovato la soluzione. È il cubo. È sempre stato il cubo.

— Il cubo?

— Ci ho pensato, poco fa, mentre percorrevo la strada. Qualcosa che abbiamo trascurato. Qualcosa che non abbiamo mai pensato. Mi è venuto in mente all’improvviso. Non ci stavo neppure pensando, e poi, di colpo, ho capito.

— Hai capito? In nome di Dio, Mary…

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