— Amministrerò questa ricchezza inaspettata nell’interesse comune — aveva detto. — Immagino che tutti vorranno ringraziarti.
— Lascia stare — aveva risposto Lansing. — Forse io e Mary torneremo qui.
— Vi terremo un posto accanto al fuoco — aveva detto Correy. — Ma spero sinceramente che non dobbiate tornare. La vita, qui, non è molto piacevole. Forse troverete una via d’uscita. Alcuni devono trovarla. Vi auguro che voi ci riusciate.
Fino al momento in cui ne aveva parlato Correy, Lansing non aveva pensato che restasse qualche speranza di uscire da quella situazione. Era una speranza cui aveva rinunciato ormai da molto tempo. Aveva sperato soltanto di ritrovare Mary per poter affrontare con lei ciò che li attendeva.
Ci pensò, mentre camminava. Correy, lo sapeva, aveva parlato con un ottimismo che non provava realmente, ma l’interrogativo restava immutato… poteva esserci ancora una speranza? La logica diceva che era una speranza molto esile, e Lansing era irritato con se stesso perché continuava ad aggrapparsi. Eppure, mentre procedeva tutto solo, la percepiva ancora nel profondo del suo essere, come un minuscolo barlume.
Il cammino era relativamente agevole. Le colline erano scoscese, ma la foresta non era fitta. L’acqua non costituiva un problema. Incontrava spesso torrentelli e rigagnoli che scendevano dalle alture.
Verso sera arrivò alle maleterre. Non erano, tuttavia, l’incubo colorato che il suo gruppo aveva attraversato dopo aver lasciato la città. Queste erano maleterre circoscritte, e si erano arrestate prima di spingersi molto lontano. Lì l’azione delle acque primordiali non aveva portato a termine la sua opera. Le piogge erano cessate e l’erosione massiccia s’era interrotta prima di creare maleterre troppo ampie. C’erano piccole piane alluvionali, alcuni canaloni profondi, fantastiche formazioni scolpite ma incompiute, come se uno scultore avesse gettato via mazzuolo e scalpello, vinto dalla frustrazione e dal disgusto, prima che il suo lavoro fosse ultimato.
— Domani — disse Lansing a se stesso, parlando a voce alta, — domani raggiungerò la città.
La raggiunse l’indomani, immediatamente dopo mezzogiorno. Si soffermò su una delle alte colline che la cingevano e la scrutò. Laggiù, pensò, Mary lo stava aspettando, forse; e a quel pensiero si sentì tremare.
Scese in fretta e trovò una via che conduceva nel cuore della città. Tutto aveva il vecchio aspetto familiare… i muri rossi ed erosi, i blocchi caduti che ostruivano parzialmente la strada, la polvere che copriva ogni cosa.
Sulla piazza si fermò e si guardò intorno per orientarsi. Adesso sapeva dove si trovava. Laggiù, a sinistra, c’era la facciata malconcia del cosiddetto palazzo amministrativo, con l’unica torre ancora in piedi, e lungo una delle vie che lo raggiungevano avrebbe trovato l’installazione.
Dal centro della piazza chiamò Mary, ma non ebbe risposta. La chiamò qualche volta ancora e poi non più, perché l’eco ossessivo della sua voce era terrificante.
Attraversò la piazza, dirigendosi verso l’edificio dell’amministrazione, salì l’ampia scalinata per raggiungere l’atrio dove s’erano accampati. I suoi passi destavano echi rimbombanti, simili a voci querule che lo chiamassero. Si aggirò nell’atrio e trovò i segni della loro sosta, un paio di barattoli vuoti, una scatola di crackers egualmente vuota, una tazza dimenticata da qualcuno. Avrebbe voluto scendere nel sotterraneo a guardare le porte, ma non osava. Più volte si mosse per andare, e ogni volta tornò sui suoi passi. Di che cosa aveva paura? si chiese… Paura di scoprire che una di quelle porte era stata aperta? Forse quella che conduceva al mondo dei meli in fiore? No, si disse… no, no, Mary non l’avrebbe mai fatto. Non l’avrebbe fatto, per ora; forse più tardi, quando avesse perduto completamente la speranza di trovarlo, e tutte le altre speranze, ma non ora. Forse, pensò, sarebbe stato impossibile per chiunque. Il generale di brigata aveva portato via la chiave inglese, probabilmente l’aveva nascosta chissà dove. Aveva giurato che nessuno avrebbe più aperto una di quelle porte.
Mentre stava immobile nell’atrio, in silenzio, ebbe l’impressione di sentire le loro voci. Parlavano: non a lui, ma tra loro. Cercò di non ascoltarle, ma le voci persistettero.
Aveva progettato di accamparsi lì, ma decise che non poteva farlo. C’erano troppe voci, e i ricordi erano troppo assillanti. Tornò al centro della piazza e incominciò ad ammucchiarvi la legna che riuscì a trovare in giro. Lavorò per tutto il resto del pomeriggio, ammassando una piccola catasta. Poi, all’imbrunire, accese il fuoco e lo alimentò perché si mantenesse vivo, con le fiamme alte. Se Mary era in città, o vi si stava avvicinando o l’osservava da una certa distanza, avrebbe visto il fuoco e avrebbe compreso che lì c’era qualcuno.
Su un fuocherello più piccolo, Lansing preparò il caffè e cucinò qualcosa. Mentre mangiava, cercò di elaborare un piano d’azione, ma non gli venne in mente altro che cercare in tutta la città, strada per strada, se fosse stato necessario. Eppure, si disse, sarebbe stata una fatica inutile. Se Mary era nella città, o se stava per raggiungerla, si sarebbe diretta immediatamente verso la piazza, sapendo che chiunque altro fosse venuto lì avrebbe fatto altrettanto.
Il Lamentatore uscì sulle colline quando spuntò la luna e urlò il tormento della sua solitudine. Lansing restò seduto accanto al fuoco e ascoltò, assalito dalla stessa angoscia.
— Scendi quaggiù con me accanto al fuoco — disse al Lamentatore. — Potremmo piangere insieme.
Solo in quell’attimo si rese conto che la sua solitudine poteva protrarsi per sempre, che forse non avrebbe più ritrovato Mary. Cercò d’immaginare cosa avrebbe provato… non rivederla più, continuare a vivere senza di lei. E Mary, che cosa avrebbe provato? Rabbrividì a quel pensiero e si accostò di più al fuoco, ma non trovò il calore che cercava.
Tentò di addormentarsi, ma dormì pochissimo. L’indomani mattina incominciò la ricerca. Stringendo i denti per dominare la paura, andò a vedere le porte. Nessuna era stata riaperta. Andò all’installazione e scese la scala. Indugiò a lungo, ascoltando il canto in sordina delle macchine. Frugò le vie a casaccio, senza troppa attenzione, sapendo che era tempo perso. Ma insistette, perché sentiva il bisogno di darsi da fare, per distrarsi.
Cercò per quattro giorni e non trovò nulla. Poi scrisse un biglietto per Mary e lo lasciò, sotto la tazza dimenticata da qualcuno, accanto al vecchio bivacco nell’edificio dell’amministrazione, e si mise in cammino per ritornare al cubo e alla locanda.
Quanto tempo era trascorso, si chiese, da quando era venuto in quel mondo? Tentò di contare i giorni, ma aveva la memoria annebbiata, e ogni volta si confondeva. Un mese? si domandò. Poteva essere un mese e non di più? Ripensandoci, gli parve che fosse trascorsa mezza eternità.
Cercò di trovare i punti di riferimento, lungo la strada. Qui c’eravamo accampati, si diceva; qui Mary ha visto le facce nel cielo. E là Jurgens aveva trovato la sorgente. Qui avevo tagliato la legna. Ma non sapeva mai se fosse davvero così. Erano avvenimenti perduti in un passato troppo lontano, si diceva: un mese nel passato.
Finalmente arrivò sulla cima d’un colle, e da lassù poté scorgere il cubo. Era sempre là, splendente, classicamente bello come lo ricordava. Per un momento si sorprese di vederlo… certo, s’era aspettato di trovarlo, ma non si sarebbe meravigliato troppo se non l’avesse trovato affatto. Quel mondo, negli ultimi giorni, aveva assunto una qualità fantomatica, e lui aveva l’impressione di procedere in un vuoto.
Scese i tornanti che si snodavano lungo il fianco scosceso della collina e raggiunse la conca dov’era situato il cubo. Quando superò l’ultima curva della strada, vide che c’era qualcosa. Prima non li aveva visti, ma adesso erano là, tutti e quattro, seduti sulla lastra di pietra scoperta da lui e da Mary, la lastra al bordo del cerchio di sabbia bianca che cingeva il cubo. Erano seduti a gambe incrociate e continuavano a giocare la loro interminabile partita a carte.
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