Clifford Simak - Il cubo azzurro

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Tutto ha inizio quando il professor Edward Lansing decide di scoprire chi ha realmente scritto un magnifico saggio su Shakespeare consegnatogli da un suo studente e viene a sapere che l’alunno l’ha comprato, pensate un po’!, da una slot machine. Una rapida investigazione ed ecco che il professor Lansing si trova di fronte alla macchinetta: questa gli dà due chiavi e lo manda alla ricerca di un’altra slot machine. La terza slot machine infine si prende il suo denaro e lo trasporta in un nuovo mondo. Qui Lansing incontra uno strano assortimento di compagni di viaggio, tra cui un prepotente brigadiere, un prete pomposo, una donna ingegnere, una poetessa e un simpatico robot, tutti ignari e perplessi come lui. Allontanati dalle loro linee temporali e scaraventati in questo nuovo mondo, sono tutti giocatori in un gioco senza regole e apparentemente anche senza scopo. Comincia così un viaggio straordinario che porterà i nostri forzati avventurieri prima a un immenso cubo azzurro e poi a un’antica e misteriosa città: scopriranno allora di dover risolvere un enigma fondamentale, la cui soluzione garantirà loro un ruolo di rilievo nello sviluppo della società galattica.

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— Forse non ne avremo bisogno — disse Lansing. — Finora non ne abbiamo avuto bisogno, per tutto il viaggio.

— Questo non c’entra — disse il generale di brigata. — Si trasporta un’arma per cento chilometri, e per mille, per usarla magari una volta sola.

Un poco più tardi arrivarono nella piazza.

— Quell’edificio laggiù — disse il generale di brigata, indicandolo. — È là che siamo accampati.

Era la costruzione più grande che sorgeva sulla piazza, e sebbene fosse in sfacelo appariva un po’ meno disastrata delle altre. La piazza era grande, e c’erano numerose strade che vi sfociavano. Tutto intorno stavano acquattati gli edifici bruno-rossicci, e i blocchi di pietra che ne erano caduti giacevano ai piedi dei muri. Quello che il generale di brigata aveva indicato aveva una torre che si reggeva ancora, e un’ampia scalinata che conduceva all’ingresso.

— C’è polvere dappertutto — disse il generale di brigata. — Sulle strade, persino al centro della piazza, dentro gli edifici, dovunque si vada. È la polvere della pietra che muore, l’usurarsi della pietra. Dove siamo accampati noi, abbiamo trovato vecchie tracce, in certi punti riparati dove non arriva mai il vento… le orme di altri che ci hanno preceduti. Altri visitatori come noi, sospetto. Sono praticamente certo che uno di quei gruppi ci precede di pochissimo, perché alcune delle tracce che abbiamo trovato erano fresche. Non rimangono fresche a lungo. Vi si posa altra polvere, o vengono cancellate da un soffio di vento.

Lansing si voltò indietro e vide che gli altri li seguivano a breve distanza. Jurgens si destreggiava coraggiosamente, un po’ più svelto del solito. Mary e Sandra lo affiancavano, e dietro di loro veniva il reverendo. Sembrava un corvo, con la testa china e il mento quasi appoggiato al petto.

— Devo avvertirla — disse il generale di brigata. — È necessario tener d’occhio il reverendo. È pazzo, senza il minimo dubbio. È l’individuo più dotato di spirito di contraddizione che abbia mai conosciuto, e rifiuta di ragionare.

Lansing non rispose. Fianco a fianco, salirono la scalinata che conduceva all’ingresso.

L’interno era buio, e c’era odore di fumo di legna. Al centro del vestibolo brillava un minuscolo occhio rosso… l’ultima brace del fuoco, con un gran mucchio di legna accanto. Gli zaini gialli erano appoggiati al mucchio. Il palpito fievole del fuoco si rispecchiava sulla superficie lucente d’una pentola.

Persino nel silenzio, l’interno dell’edificio era tutto un vuoto risonante e il rumore dei passi echeggiava cavernosamente. In alto, le arcate massiccie scomparivano in una oscurità che diventava profonda come la notte. Nel vuoto parevano danzare ombre impazzite.

Gli altri entrarono dopo di loro, e le voci di Mary e Sandra, che continuavano a chiacchierare, scatenarono una serie di echi lontani e rombanti, come se cento persone nascoste stessero parlando nei meandri interni dell’edificio.

Si accostarono al fuoco. Il generale di brigata lo riattizzò e aggiunse altra legna. Le fiamme incominciarono a lingueggiare, avvolgendo i ceppi, e le ombre si rincorsero sulle pareti. Lansing ebbe la sensazione che un’orda di sagome alate volasse altissima, sotto la volta, tra gli archi torreggianti.

— Preparerò la colazione, ma ci vorrà un po’ — disse Sandra. — Generale, perché non accompagna gli altri a vedere lo schermo grafico? Non è lontano.

— Buona idea — disse il generale di brigata. — Prendo la torcia elettrica. È abbastanza buio, più avanti.

— Io resto ad aiutarti — disse Mary a Sandra. — Lo schermo lo vedrò più tardi.

Il generale di brigata si avviò, fendendo l’oscurità con il fascio luminoso della torcia. I tonfi della gruccia di Jurgens sollevavano ondate di echi.

— Quello schermo è una stregoneria — borbottò il reverendo. — Nessuno dovrebbe posarvi gli occhi. Io consiglierei di sfasciarlo. Qualche colpo ben assestato con l’accetta dovrebbe bastare.

— Ci si provi — ringhiò il generale di brigata, — e l’accetta la uso su di lei. Lo schermo è l’unica reliquia giunta fino a noi di quello che un tempo doveva essere un popolo intelligente ed evoluto. Non pretendo di sapere che cosa sia, esattamente.

— L’ha chiamato schermo grafico — disse Lansing.

— Lo chiamo così perché è la descrizione più pratica che mi è venuta in mente. Ma sono sicuro che è qualcosa di più. Credo che sia in contatto con un altro luogo, grazie a una conoscenza e a una tecnologia che noi non abbiamo ancora immaginato e che forse non riusciremo mai a immaginare.

— Ed è meglio così — disse il reverendo. — Ci sono cose che è meglio lasciar perdere. Sono convinto che in tutto l’universo regni una grande moralità…

— Al diavolo la sua moralità — disse il generale di brigata. — Non fa altro che borbottare. Borbotta sempre. Invece di borbottare, perché non parla chiaro?

Il reverendo non rispose.

Finalmente arrivarono allo schermo grafico. Era in una stanza, all’angolo estremo dell’edificio. A prima vista, in quel locale non c’era niente altro, e lo schermo non faceva una figura imponente. Era una grande massa che si poteva descrivere sbrigativamente come un mucchio di rottami. Era morto e coperto di polvere. Qua e là il rosso arrugginito del metallo eroso affiorava attraverso la polvere e il sudiciume.

— Quello che non riesco a capire — disse il generale di brigata, — è come possa funzionare ancora questa piccola parte, quando tutto il resto è ciarpame.

— Forse quello che vediamo — disse Lansing, — è solo la parte funzionante terminale. Forse è tutto ciò che c’è sempre stato da vedere… la componente grafica. Può darsi che il resto sia soltanto un meccanismo operativo che sta insieme alla meno peggio. Basterebbe che qualcuno battesse troppo forte il piede sul pavimento, perché l’ultimo collegamento superstite che lo fa funzionare si sgretolasse e si spegnesse tutto.

— Non ci avevo pensato — disse il generale di brigata. — Forse ha ragione, ma ne dubito. Io credo che questo mucchio di rottami fosse, un tempo, uno schermo panoramico. E quello che è rimasto è soltanto un angoletto.

Girò intorno al mucchio di ciarpame e si fermò, spegnendo la torcia elettrica.

— Guardate — disse.

C’era qualcosa che somigliava a uno schermo televisivo da venticinque pollici, sebbene avesse i margini dentellati.

Nello schermo dentellato si estendeva un mondo crepuscolare, allucinante, colorato di rosso. In primo piano, un gruppo di macigni sfaccettati scintillavano nella luce fioca del sole invisibile.

— Sembrano diamanti, non le pare? — chiese il generale di brigata. — Un gruppo di macigni di diamante!

— Non saprei — disse Lansing. — Non conosco molto bene i diamanti.

I macigni che forse erano di diamante spiccavano su una pianura sabbiosa, tra la vegetazione rada: qualche ciuffo d’erba rigida, cespugli bassi, stenti e spinosi, che nella conformazione creavano l’illusione d’essere animali… strani animali, indubbiamente, ma comunque appartenenti più alla fauna che alla flora. Sull’orizzonte lontano, cinque o sei alberi si stagliavano contro il cielo rosso, anche se, guardandoli più attentamente, Lansing non fu certo che fossero alberi. Erano grottescamente aggobbiti e le radici, se erano radici, non affondavano direttamente nel suolo, ma si aggobbivano anch’esse lungo la superficie, un po’ come vermi in movimento. Gli alberi, evidentemente, dovevano essere enormi perché i dettagli spiccassero tanto nitidi a quella distanza.

— È questo che si vede sempre? — chiese Lansing. — La scena è sempre la stessa?

— Sempre la stessa — rispose il generale di brigata.

Qualcosa guizzò attraverso lo schermo, da sinistra a destra, rapidissimo. Per un istante, come se una macchina fotografica fosse scattata nel suo cervello, Lansing ne captò la forma. Sostanzialmente era umanoide: aveva due braccia, due gambe, una testa. Ma non era umano; era tutt’altro che umano. Il collo era lungo ed esile, la testa piccola, e la linea del collo si estendeva fino alla sommità del cranio, e la testa ne pendeva. Il collo e la testa erano inclinati, in quella velocità disperata, al punto che la testa era quasi orizzontale rispetto al suolo. La mascella sporgente era massiccia, ma la faccia, se esisteva, era minuscola. Tutto il corpo era angolato in avanti, nella direzione della corsa, e le braccia e le gambe si muovevano energicamente. Le braccia, più lunghe di quelle di un umano, terminavano in masse informi che non erano mani, e il piede sollevato (l’altro era affondato nella sabbia) terminava in due unghioni. Sembrava un’impressione causata dalla velocità con cui si muoveva.

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