— Abbiamo trovato qualcosa — disse Jurgens. — Sembra carta. Forse è un libro.
Lansing si affrettò a raggiungere il robot, s’inginocchiò e cercò di togliere la polvere da ciò che Jurgens aveva scoperto. Il tentativo non riuscì molto bene. Prese l’oggetto e lo scosse. La polvere vortice nell’aria, soffocandolo.
— Usciamo — disse. — Troviamo un posto più adatto per guardarlo.
— Non ha preso tutto — disse Jurgens. — Ce n’è un’altro là. Mezzo metro più a sinistra.
Lansing si chinò e lo prese.
— È tutto?
— Credo di sì. Non vedo niente altro.
Tornarono in fretta nel corridoio.
— Tienimi vicina la torcia — disse Lansing. — Vediamo che cos’è.
Un esame più attento rivelò quattro fogli piegati… carta o forse plastica. Era difficile capire esattamente che cosa fossero, sotto quella crosta di polvere. Lansing infilò tre dei fogli in una tasca della giacca e aprì l’altro. Le piegature erano numerose e rigide, e opponevano resistenza. Finalmente anche l’ultima cedette, e Lansing si trovò in mano il foglio spiegato. Jurgens vi puntò il raggio della torcia elettrica.
— Una mappa — disse.
— Forse di questo posto — disse Lansing.
— Può darsi. Dovremmo guardare meglio. Dove c’è più luce.
C’erano linee e segni strani, e accanto ad alcuni segni c’erano file di simboli interconnessi che potevano essere nomi di località.
— Il generale ha detto di chiamare, se avessimo trovato qualcosa.
— Possiamo aspettare — disse Lansing. — Finiamo di esplorare le altre stanze.
— Ma potrebbe essere importante.
— Continuerà ad avere la stessa importanza anche fra un’ora.
Continuarono la ricerca e non trovarono niente. Tutte le camere polverose erano vuote.
A metà del corridoio, mentre ritornavano verso la scala, sentirono in distanza il richiamo d’una voce tonante.
— Qualcuno ha trovato qualcosa — disse Jurgens.
— Sì, credo di sì. Ma dove?
Il grido echeggiava e riecheggiava cavernosamente, nello spazio vuoto del sotterraneo. Sembrava provenire da tutte le direzioni.
Si avviarono in fretta lungo il corridoio e arrivarono ai piedi della scala. Non era ancora possibile determinare la direzione da cui veniva il grido. In certi momenti sembrava giungere dal corridoio che avevano appena lasciato.
In fondo al corridoio di destra scintillava una luce in movimento.
— Il generale e Sandra — disse Jurgens. — Quindi sono stati il reverendo e Mary a trovare qualcosa.
Dopo pochi passi il generale di brigata li raggiunse.
— Siete qui — disse, ansimando. — Allora quello che grida è il reverendo. Non riuscivamo a capire da dove venisse la voce.
Tutti e quattro si avviarono insieme lungo il corridoio centrale. Arrivarono in fondo e irruppero in una stanza molto più grande di quelle che avevano esplorato Jurgens e Lansing.
— Può smettere di miagolare, adesso — disse il generale di brigata. — Siamo qui. Cos’è tutto questo chiasso?
— Abbiamo trovato le porte — urlò il reverendo, — le mostreremo cosa sono. Porte di un altro genere.
Lansing si fermò accanto a Mary e vide, lungo la parete di fondo della stanza, una fila di luci circolari… Non la luce accecante delle torce elettriche e neppure quella rossa e palpitante di un fuoco: era la luce del sole. E tutte erano allineate all’altezza della testa, rispetto al pavimento.
Mary gli strinse il braccio destro con tutte due le mani.
— Edward — disse con voce tremante, — abbiamo trovato altri mondi.
— Altri mondi? — ripeté lui, stordito.
— Ci sono le porte — disse Mary, — e gli spioncini. Se guardi dagli spioncini, vedi gli altri mondi.
Lo tirò per il braccio; senza capire bene come stessero le cose, Lansing la seguì davanti a uno dei cerchi luminosi. — Guarda — disse lei, affascinata. — Guarda e vedrai. Questo è il mondo che preferisco. Il più bello.
Lansing si accostò e guardò dallo spioncino.
— Io lo chiamo il mondo dei fiori di melo — disse Mary. — Il mondo dell’uccellino azzurro.
E Lansing vide.
Il mondo si estendeva davanti a lui, ed era sereno e dolce, con un’immensa distesa d’erba, di un verde quasi risplendente. Un ruscello scintillante scorreva in mezzo al prato, a una certa distanza, e Lansing vide che l’erba era costellata da fiori celesti e giallo-tenero. I fiori gialli sembravano asfodeli cullati dalla brezza. Quelli azzurri, meno alti e seminascosti tra l’erba, lo guardavano come occhi intimiditi. Su una collina lontana c’era un gruppo di alberelli rosa, completamente avvolti nell’incredibile manto rosato dei fiori.
— Meli selvatici — disse Mary. — I meli selvatici hanno i fiori rosa.
Quel mondo irradiava un senso di freschezza, come se fosse nato da pochi minuti… lavato da una gentile pioggia di primavera, asciugato e spazzolato da una brezza premurosa, lustrato dai raggi d’un sole dolce.
Non si vedeva altro che il prato verde costellato d’un milione di fiori, il ruscello che scorreva scintillante e il rosa dei meli sulla collina. Era un luogo privo di complicazioni, un luogo tutto semplicità. Ma era abbastanza, si disse Lansing: aveva tutto ciò che era necessario.
Distolse il viso dallo spioncino per guardare Mary.
— È incantevole — disse.
— Lo penso anch’io — disse il reverendo. Per la prima volta da quando l’aveva incontrato, Lansing vide che gli angoli della bocca non erano incurvati verso il basso. La faccia perpetuamente ansiosa e perplessa era serena.
— Certi altri — disse con un brivido. — Certi altri, ma questo…
Lansing osservò la porta in cui era situato lo spioncino e vide che era un po’ più grande di un uscio comune, e sembrava di metallo molto pesante. I cardini erano strutturati in modo che si aprisse verso l’esterno, nell’altro mondo, e per tenerla bloccata era fissata da massicce alette di metallo. Le alette erano trattenute da robusti bulloni inseriti nel muro.
— Questo è solo uno dei vari mondi — disse Lansing. — Gli altri come sono?
— Molto diversi — rispose Mary. — Vai a vederli.
Lansing guardò da un altro spioncino. Mostrava una scena artica… un’immane distesa di neve, il velo d’una tormenta furiosa. Nelle pause momentanee tra i vortici si scorgeva lo splendore crudele d’un ghiacciaio torreggiante. Lansing rabbrividì, sebbene quel freddo non lo toccasse. Non c’era segno di vita: non si muoveva nulla, tranne la neve turbinante.
Il terzo spioncino gli mostrò un spoglia superficie rocciosa, parzialmente nascosta da mucchi di sabbia. I minuscoli pezzi di ghiaia, sulla superficie, sembravano animati d’una vita propria. Rotolavano di qua e di là, sospinti dalla violenza del vento che sollevava la sabbia. Non si vedeva nulla, se non in primo piano: l’orizzonte era invisibile. La sabbia portata dal vento cancellava ogni profondità di percezione in una foschia giallastra.
— Sì, vedi — disse Mary, che aveva seguito Lansing.
Il quarto spioncino rivelava un luogo feroce e famelico, una giungla acquatica in cui nuotavano e strisciavano e zampettavano innumerevoli predatori. Per un momento Lansing non riuscì a distinguere quegli elementi vivi: ricevette soltanto l’impressione d’un movimento convulso. Poi, a poco a poco, incominciò a differenziare ciò che vedeva… i divoratori e i divorati, le contese e le lotte, la fame e la furtività. Erano esseri come non ne aveva mai veduti… corpi contorti, fauci enormi, appendici sferzanti, zanne acuminate, artigli fulminei, occhi lucenti.
Voltò le spalle alla porta, nauseato, con lo stomaco sottosopra. Si passò una mano sul volto, come per scacciare l’odio e il ribrezzo.
— Non sono stata capace di guardarlo — disse Mary. — Ho dato solo un’occhiata.
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