Nella vita scientifica di Troy, nessuna esperienza avrebbe mai più potuto rivaleggiare con l’osservazione di quel lancio notturno della navetta spaziale. Mentre ascoltava gli altoparlanti della zona VIP annunciare l’inizio del conto alla rovescia, aveva provato una smania impaziente, ma non reverenza. Nell’istante in cui si erano accesi i motori, e la notte della Florida s’era empita di fiamma arancione e di dense e turbinanti nuvole di fumo, gli erano quasi schizzati gli occhi dalle orbite. Ma la combinazione tra la vista della gigantesca astronave, in lenta e maestosa ascesa nel cielo a cavallo d’una lunga fiamma sottile, e quel suono sbalorditivo — un fragore costante, punteggiato di inspiegabili scoppiettii (che, già a sette chilometri di distanza, arrivava una ventina di secondi dopo l’immagine dell’accensione dei motori), gli aveva fatto venire la pelle d’oca, le lacrime agli occhi, e un prurito in tutto il corpo. Questa intensa eccitazione emotiva era durata assai più di un minuto. In piedi accanto al fratello Jamie, la mano stretta forte nella sua, aveva arcuato la schiena a seguire la fiamma in ascesa, su, sempre più su, fino alla sua scomparsa nel cielo notturno.
Dopo il lancio, i fratelli tornarono a dormire in macchina. Poi Jamie lasciò Troy alla stazione delle corriere di Orlando e tornò a Gainesville per gli allenamenti. Il giovane Troy si sentì un altro: una persona trasformata da quell’esperienza. Nella settimana successiva seguì il volo come ossessionato e Burford diventò il suo eroe, il suo nuovo idolo. Nei primi due trimestri dell’anno seguente, si applicò con zelo agli studi. Ora aveva una meta: diventare astronauta.
Ma non sapeva che, una notte di marzo di soli sette mesi dopo, avrebbe avuto un’altra esperienza — tanto devastante e sconvolgente, da annullare l’emozione provata al lancio della navetta. Quella sera degli ultimi di marzo, Jamie aveva fatto un salto in camera sua prima di uscire verso le otto. «Vado da Maria, fratellino» aveva detto. «Probabile che andiamo al cinema.»
Maria Alvarez aveva diciott’anni ed era ancora alle superiori. Era la ragazza fissa di Jamie da un paio d’anni, e abitava a Little Havana coi genitori cubani e otto tra fratelli e sorelle.
Troy l’aveva abbracciato. «Sono contento che sei qui, Jamie. Ho un sacco di cose da farti vedere. A scuola ti ho fatto una cuffia stereo…»
«Vedrò tutto, ma domattina» l’aveva interrotto Jamie. «Adesso tu, però, non stare alzato troppo. Gli astronauti devono dormire parecchio, se vogliono essere svegli al momento giusto!» E, con un sorriso, era uscito. E fu, quella, l’ultima frase che Troy gli avrebbe sentito dire.
Che cosa avesse udito per prima cosa, destandosi in piena notte, non era più riuscito a ricordare. L’urlo straziante della madre si era mescolato al gemito acuto delle sirene vicine, creando un intrico di suoni indimenticabile e terrificante. Troy si era precipitato alla porta e in cortile con addosso solo i pantaloni del pigiama. Il suono della sirena dell’ambulanza si faceva sempre più vicino. Sua madre era in capo al vialetto d’accesso alla casa, china su un corpo scuro steso a mezzo fra la strada, davanti alla Chevrolet di Jamie, e il cortile. Attorno a lei, impazzita dal dolore, stavano tre poliziotti e mezza dozzina di curiosi.
«Chissà come ha fatto a tornare a casa» sentì dire da un poliziotto, mentre cercava disperatamente di capire che cosa fosse accaduto. «È incredibile, con tutto il sangue che ha perduto. Deve essere stato colpito quattro volte allo stomaco…»
L’urlo della madre montò di nuovo, e, in quell’istante, Troy ricompose i pezzi e riconobbe il corpo steso sulla schiena. Raggelato, il fiato mozzo, cadde in ginocchio accanto alla testa del fratello. Jamie si sforzava di respirare, gli occhi aperti ma vitrei.
Troy gli prese la testa fra le mani, e gli guardò lo stomaco. La maglietta sportiva rossa era intrisa di sangue, e il sangue sembrava sgorgare con flusso ininterrotto da un punto appena al di sopra dei genitali, ed era dappertutto — sui jeans di Jamie, per terra, dappertutto, dappertutto… Troy ebbe un conato come di vomito, si strozzò, ma non rigettò nulla. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.
«Pensiamo sia opera di qualche banda, signora Jefferson» continuò monotono il poliziotto. «E probabilmente è stato colpito per sbaglio, perché tutti sanno che Jamie non aveva niente a che fare con quella razza di gente.» Erano arrivati dei giornalisti, e lampeggiavano i flash. Altre sirene in avvicinamento…
Gli occhi di Jamie si spensero, e il respiro cessò. Troy si strinse la testa del fratello al petto, sapendo d’istinto che era morto, e cominciò a singhiozzare incontrollabilmente. «No,» mormorava «no. Non mio fratello… non Jamie… lui che non ha mai fatto male a nessuno…»
Qualcuno tentò di confortarlo, di battergli la mano sulla spalla, ma lui respinse tutti con violenza, gridando, fra un singhiozzo e l’altro: «Lasciatemi stare! Era mio fratello, il mio unico fratello!». Dopo qualche istante, gli posò delicatamente la testa a terra, e gli crollò accanto disperato.
Verso le tre e mezzo del mattino d’una decina di anni dopo, nel marzo del 1994, Troy Jefferson, solo nella villetta bifamiliare, si sarebbe svegliato al ricordo del terribile momento della morte di Jamie e avrebbe rivissuto lo strazio di quella perdita. E, rivivendolo, si sarebbe reso conto con lucidità che la maggior parte dei suoi sogni di adolescente era morta con quella morte, e che la sua rinuncia all’università e al futuro da astronauta era indissolubilmente legata al ricordo di Jamie.
Nei tre anni seguenti alla morte di Jamie, aveva continuato le superiori in qualche modo, e c’erano voluti gli sforzi congiunti della madre, della scuola e delle autorità cittadine per impedirgli di abbandonare del tutto gli studi. Poi, appena preso il diploma, aveva lasciato Miami. O, meglio, ne era scappato: scappato da ciò che era accaduto e da ciò che avrebbe potuto accadere. Per oltre due anni aveva quindi vagato senza meta per il Nordamerica, giovane nero solitario privato d’amore e d’amicizia, alla ricerca di qualcosa che potesse fargli vincere quel senso di vuoto che gli era compagno costante.
E alla fine sono capitato a Key West avrebbe pensato, anni dopo, nel tornare a letto a metà mattina per un altro paio d’ore di sonno. E per chissà quale ragione mi ci sono fatto una casa. Forse era semplicemente tempo che lo facessi. O forse avevo imparato abbastanza per sapere che la vita continua. Come che sia, anche se la ferita non si è ancora rimarginata, ho superato il problema Jamie. E trovato il Troy perduto. O almeno spero.
Gli tornò improvvisamente in mente il sogno interrotto dalla sirena: Angie, bella sotto la luna nel suo costume da bagno bianco. Alé, torniamo a dove s’era lasciato… , rise fra sé, concentrandosi sulla immagine di lei nel tornare a dormire.
«Buondì, angelo!» lanciò Troy con un gran sorriso, mentre Carol si avvicinava alla Florida Queen. «Pronta per un po’ di pesca?» Saltando dalla barca, gridò a Nick, che era a poppa, dall’altra parte del tendaletto: «È arrivata, professore! Vado al parcheggio a prendere la sua roba». Carol gli consegnò le chiavi dell’auto, e Troy si avviò verso la capitaneria.
Carol rimase sulla gettata in attesa che Nick emergesse da dietro il tendaletto. «Su, monta a bordo» disse lui, pulendo un po’ accigliato una grossa catena da draga con uno straccio scuro. I postumi della sbronza lo facevano sentire in un stato tremendo, e ad essi si aggiungeva la preoccupazione per gli eventi della notte. Carol, lì per lì, non aprì bocca. Lui, allora, smise di strofinare la catena e rimase in attesa che parlasse.
«Non so proprio come cominciare,» esordì finalmente lei, in tono fermo ma garbato «ma bisogna proprio che lo dica prima di salire a bordo.» Poi, schiarendosi la gola, continuò decisa: «Senti, Nick: oggi voglio scendere giù non con te, ma con Troy».
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