«Oh, senti, Roberto: e chi mai ce lo darà,» fece, con veemenza, Todd «quando non siamo in grado di esibire le foto, ma solo la tua parola che esistono? No, dobbiamo agire per conto nostro. Se sbagliamo, non lo saprà nessuno. Se invece abbiamo ragione noi, inchioderemo quel bastardo, saremo entrambi degli eroi, e nessuno ci chiederà conto di quello che abbiamo fatto per arrivarci.»
Ramirez non aprì bocca per qualche secondo. «Non credi che dovremmo informare almeno il capitano Winters? Dopo tutto, l’ufficiale responsabile delle indagini sul Panther è lui.»
«Ma nemmeno per sogno!» si affrettò a dire Todd. «L’hai pur sentito ieri, no? Per lui, noi siamo già andati troppo in là, e lui, invidioso com’è, non chiederebbe di meglio che farci finire nella merda.» Poi, vedendo che Ramirez esitava ancora, aggiunse. «Be’, insomma, facciamo così: lo avvertiamo dopo che avremo scoperto dov’è la barca.»
Il tenente Ramirez scosse la testa. «Ma non farà differenza, perché saremo comunque andati al di là della nostra autorità.»
«Oh cazzo!» esclamò esasperato Todd. «Allora dimmi come bisogna fare e ci penserò io. Da solo, senza di te, assumendomi tutto il rischio.» Poi, piantandoglisi davanti, sibilò: «Puttana vacca, io davvero non riesco a capire: si vede proprio che a voi messicani vi manca il fegato. Tu, proprio tu, hai visto il missile su quella foto, e poi…».
«Adesso basta, Todd» sbottò aspro Ramirez, guardandolo di brutto. «Ci procureremo i dati. Ma, se andrà male, ti spezzerò il collo con queste mani.»
«Sapevo che avrei finito per convincerti» sorrise Todd alle sue spalle, seguendolo alla consolle di comando.
Il capitano Winters posò la confezione extra di sei Coca-Cole sopra le vaschette del ghiaccio e richiuse il frigo portatile. «C’è altro, prima che lo carichi in macchina?» gridò fuori dalla porta alla moglie e al figlio.
«No, signore» giunse dal vialetto la risposta. Winters sollevò il frigo e scostò la zanzariera. «Uff» disse, una volta caricatolo nel portabagagli «avete da mangiare e da bere per una dozzina di persone, qui dentro!»
«Vorrei tanfo che venisse anche lei, signore» disse Hap. «Perché quasi tutti verranno accompagnati dal padre.»
«Lo so, lo so,» rispose Winters «ma ci sarà tua madre al posto mio. Io ho bisogno di provare in privato per stasera.» Un rapido abbraccio al figlio, e continuò: «E poi, Hap, ne abbiamo già parlato: da un po’ di tempo a questa parte, le attività organizzate della chiesa mi mettono a disagio, perché, secondo me, la religione è una cosa fra Dio e l’individuo».
«Una volta non la pensavi così» interloquì Betty dall’altra parte della macchina. «Anzi, le scampagnate della chiesa ti piacevano tanto. Giocavi a softball, nuotavi, e ridevamo tutta la sera.» Nella sua voce si avvertiva una punta d’amarezza. «Su, vieni, Hap» continuò dopo un istante. «È meglio che andiamo, se non vogliamo arrivare in ritardo. Ringrazia tuo padre per averci aiutato a preparare tutto.»
«Grazie, papà.» Hap montò in macchina e Winters gli chiuse la portiera alle spalle. Continuarono a salutarsi finché la Pontiac non fu sulla strada. Mentre si allontanava, Winters si disse. Bisogna che passi più tempo con lui. È nel momento in cui ha bisogno di me. Se non lo faccio, presto sarà troppo tardi.
Si girò e tornò in casa. Al frigorifero, si arrestò per versarsi un bicchiere di succo d’arancia. Lo bevve lasciando pigramente correre lo sguardo per la cucina. Betty aveva già sparecchiato e infilato nella lavastoviglie i piatti della prima colazione, strofinato per bene i ripiani da lavoro, e posato sul tavolo, ripiegato in bell’ordine, il giornale. La cucina era linda, ordinata. Come lei, cui faceva orrore ogni specie di disordine. Gli venne in mente una mattina di tanto tempo addietro, quando Hap era ancora in fasce e abitavano a Norfolk, in Virginia. Nel battere esuberante sul tavolo di cucina, il piccolo aveva improvvisamente allargato le braccia, scagliando a terra la tazzina da caffè di Betty e il bricco della panna, che si erano rotti entrambi schizzando mezza cucina. Betty aveva interrotto di colpo la colazione, e, quando si era rimessa alle sue uova strapazzate, né il pavimento, né l’armadietto, né il cesto dei rifiuti (versati i cocci nel sacchetto al suo interno, aveva infatti portato il sacchetto direttamente ai bidoni esterni) recavano più la minima traccia dell’avvenuto incidente.
Immediatamente a destra del frigorifero, appesa alla parete, una placchetta scritta in semplici caratteri a mano diceva: «Poiché Iddio amò tanto il mondo, che diede il figlio Suo unigenito, affinché chiunque creda in Lui abbia vita eterna… Giovanni 3, 16 » . Lui, quella placca, la vedeva ogni giorno, ma erano mesi, anzi forse anni, che non ne leggeva le parole. Quella domenica mattina, le lesse e ne fu commosso. Pensò al Dio di Betty, un Dio assai simile a quello da lui stesso venerato durante l’infanzia e l’adolescenza nell’Indiana: un vecchio quieto, calmo, savio, che, seduto in cielo da qualche parte, osservava ogni cosa, sapeva ogni cosa, e attendeva di ricevere e rispondere alle preghiere degli uomini. Era un’immagine tanto semplice e bella! «Padre nostro, che sei nei cieli,» recitò, ricordando le centinaia, forse migliaia di volte che aveva pregato in chiesa «sia benedetto il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà, così in cielo come in terra…»
E la tua volontà nei miei confronti, quale sarebbe, vecchio? , pensò, leggermente sorpreso della propria irriverenza. Da otto anni mi lasci andare alla deriva. Mi ignori. Mi sottoponi a prova come Giobbe. O mi punisci, magari. Andò a sedere al tavolo di cucina e bevve un altro sorso di succo d’arancia. Ma mi avrai perdonato? Non so ancora. Mai una volta, in tutto questo tempo, mi hai dato un segno preciso. Nonostante le mie preghiere e le mie lacrime. E pensare che una volta, subito dopo la Libia, mi sono detto che forse…
Si rivide mezzo assopito sulla spiaggia, steso di schiena con gli occhi chiusi su un grande asciugamano morbido. Di lontano gli giungeva il fruscio della risacca misto a voci di bimbi, e ogni tanto la voce di Hap o di Betty. Il sole estivo era caldo e rilassante. A un tratto, sotto le palpebre gli danzò una luce. Aprì gli occhi. Fra il bagliore del sole e un riflesso metallico che gli arrivava dritto, non riusciva a vedere granché. Si fece allora schermo con una mano. In piedi accanto a lui, intenta a fissarlo, c’era una bimbetta di forse un anno, e il riflesso proveniva dal lungo pettine metallico che portava infisso nei lunghi capelli.
Chiuse gli occhi e li riaprì. Ora la vedeva meglio. Aveva inclinato un po’ la testa, sicché il riflesso era svanito, ma continuava a fissarlo inespressiva. Aveva addosso solo dei pannolini, e si vedeva che era straniera. Araba, forse , aveva pensato sul momento, osservandone gli occhi marrone-scuro foggiati a mandorla. La piccola non si mosse né aprì bocca: continuò solo a fissarlo curiosa, imperterrita, indifferente in apparenza a ciò che lui facesse o non facesse.
«Ciao,» disse piano lui «chi sei?»
La piccola araba non diede segno di aver sentito. Dopo qualche secondo, però, gli puntò improvvisamente contro un dito assumendo un’aria stizzita. Lui si scosse e balzò seduto. Il repentino movimento spaventò la bimba, che cominciò a piangere. Lui allungò le braccia a prenderla, ma lei si ritrasse, scivolò, perse l’equilibrio, e cadde sulla sabbia. Nel cadere, la testa batté su qualcosa di acuminato, e subito si vide un rivolo di sangue scenderle sulla spalla. Spaventata sia dalla caduta sia dalla vista del sangue, la piccola cominciò a strillare.
Lui le si chinò sopra, combattendo il suo stesso panico alla vista della sabbia macchiata di sangue. Qualcosa d’irriconosciuto gli balenò per la mente, e decise di raccogliere la piccola araba per consolarla. Lei si divincolò violentemente, con lo spericolato abbandono e la sorprendente forza dei lattanti, e riuscì a liberarsi. Ma ricadde sul fianco, spruzzando di macchioline rosse la sabbia chiara. Completamente isterica, ora il volto soffuso di spavento e stizza, piangeva così forte da mozzarsi il respiro. E di nuovo gli puntò addosso il dito.
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