Arthur Clarke - Culla

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Un missile top secret che svanisce in volo. Un tridente d’oro che cambia sorprendentemente forma. Una caverna subacquea custodita da balene... Qualcosa si nasconde nel fondo marino al largo di Key West, un mistero in parte umano ma nello stesso tempo terribilmente alieno. Il suo potere è immenso e terrificante e potrebbe distruggere ogni forma di vita sulla Terra. Ma qualcuno ha deciso di scoprire il terribile segreto. E da quel momento non esiste più alcuna certezza, nessun luogo sicuro in cui nascondersi, nessuna alleanza su cui poter contare. Intorno a una giornalista bella e ambiziosa, disposta a correre qualsiasi rischio pur di arrivare alla verità, si stringe la rete di una cospirazione implacabile: spie militari, killer spietati, ma soprattutto una forza estranea e sconosciuta, le cui mosse nessuna mente umana potrebbe comprendere e prevedere... L’inesauribile immaginazione di Arthur C. Clarke spazia in questo nuovo romanzo dagli enigmi irrisolti del passato alle soglie indecifrabili del futuro, dagli infiniti oceani di stelle all’imperscrutabile fondo del mare. In un appassionante viaggio ai confini della realtà, Culla esplora i percorsi dell’avventura e dell’ignoto.

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«Ora, la nostra scena non funziona per una ragione: che, vista dalla sala, non dà a nessuno l’impressione che si tratti di preliminari amorosi. A questo punto, per conferire maggior scioltezza, posso cambiarne lo svolgimento — per esempio, col far scoprire Charlotte dietro la porta da uno Shannon già a letto, e col vestire Charlotte in modo che sembri meno bambina —, ma c’è una cosa che non posso fare…» e qui si fermò, guardando dall’uno all’altra e notando che né l’uno né l’altra capivano dove volesse andare a parare.

«Su, venite qua, tutt’e due» fece, con un cenno impaziente della destra. Poi, presa per mano Tiffani con la sinistra e il capitano Winters con la destra, continuò, abbassando il tono: «Voi, in questa commedia, siete amanti di una notte. È quindi fondamentale che il pubblico afferri la situazione, altrimenti non capirà mai bene perché Shannon sia, come l’iguana, allo stremo. Shannon è disperato perché, a suo tempo, è stato estromesso dalla sua chiesa per aver ceduto alla stessa voglia…».

Malgrado lo ascoltassero entrambi, Melvin fiutò, con il suo intuito di regista, che le sue parole non avevano ancora centrato il bersaglio. Gli venne allora un’altra idea: prese la mano di Tiffani e la ficcò in quella del capitano, chiudendovi sopra la propria perché fosse più chiaro. «Guardatevi l’un l’altra per un momento. Così, bene.» Poi, rivolto a Winters: «Lei è giovane e bella, sì o no, comandante?» disse, guardando i due che si fissavano.

«E lui è un bell’uomo, sì o no, Tiffani? Bene: allora voglio che immagini di provare un irrefrenabile desiderio di toccarlo, di baciarlo, di essere nuda con lui.» Tiffani arrossì. Winters si agitò a disagio. Melvin ebbe l’impressione di cogliere una scintilla, anche se fuggevole…

«Domani sera, dunque,» proseguì, guardando Tiffani e staccando la mano dalle due unite «voglio vederti provare questo stesso desiderio quando sarai nascosta nella sua stanza. Voglio che ti esploda quando lui ti scoprirà lì. E lei, comandante,» disse, spostando lo sguardo sull’attore di mezz’età «sarà uno Shannon combattuto fra il desiderio travolgente di possedere questa giovinetta e la quasi certezza che ciò significherebbe per lui la rovina definitiva dell’esistenza fisica e spirituale. Lei si troverà insomma in una trappola senza uscita: teme di esser già stato abbandonato da Dio per via dei peccati da lei commessi in passato, ma, nonostante il suo timore, finirà per abbandonarsi al richiamo della carne e per commettere un altro peccato imperdonabile.»

Tiffani e il capitano Winters si resero conto quasi contemporaneamente di essere ancora là con le mani allacciate. Si guardarono un istante e, imbarazzati, si sciolsero con un certo disagio. Melvin s’infilò tra loro e pose loro le braccia sulle spalle. «Adesso andate a casa e rifletteteci su. E domani sera tornate a fare il vostro figurone.»

Vernon Winters infilò la Pontiac nel vialetto di casa, alla periferia di Key West, poco prima delle undici. La casa era là, tranquilla e silenziosa, le luci spente tranne che in garage e in cucina. Tutto è regolare, come le stelle , pensò. Hap a letto alle dieci, Betty alle dieci e mezza. Dentro di sé vide la moglie entrare nella camera del figlio, come ogni sera, e cincischiare un po’ con lenzuola e copriletto. «Hai detto le preghiere?»

«Sì, signora» rispondeva come sempre Hap.

Poi lei gli dava il bacio della buonanotte in fronte, spegneva la luce uscendo, e andava in camera sua. Dieci minuti per mettersi il pigiama e lavarsi denti e viso, poi in ginocchio accanto al letto, gomiti sulla coperta e viso tra le mani. «Signore caro» avrebbe cominciato a voce alta; poi, a occhi chiusi e muovendo le labbra in silenzio, avrebbe pregato fino alle dieci e mezzo precise. Cinque minuti più tardi, il sonno.

Nell’attraversare il soggiorno per avviarsi alle tre camere da letto, che stavano al lato opposto del garage, avvertì in sé una vaga inquietudine. Lo rodeva qualcosa: qualcosa che non sapeva bene che fosse, ma che doveva essere in relazione col nervosismo della prima imminente o con l’improvvisa ricomparsa di Randy Hilliard nella sua vita. Desiderava parlare con qualcuno.

La prima fermata fu la camera di Hap. Entrò piano al buio e sedette accanto al letto del figlio. Hap dormiva come un ghiro, girato sul fianco, il profilo illuminato da una lucina da notte. Come somigli a tua madre! , pensò. Anche nel modo di fare. Siete tanto vicini, voi due, da farmi quasi sentire un estraneo in casa mia. Posò piano la mano sulla guancia di Hap. Il ragazzo non si mosse. Come rimediare a tutto il tempo che sono stato via?

Lo scosse dolcemente per svegliarlo. «Hap,» disse piano «sono papà.» Henry Allen Pendleton Winters si stropicciò gli occhi, poi si tirò di scatto a sedere. «Sì, signore. È successo qualcosa? Sta forse male mammina?»

«Ma no» rise il capitano. «Mammina sta bene e non è successo niente. Avevo solo voglia di fare quattro chiacchiere.»

Hap diede un’occhiata all’orologio accanto al letto. «Mmm… be’… va bene, papà. E di che cosa voleva parlare?»

Dopo un attimo di silenzio, Winters disse: «Senti, Hap, hai poi letto il copione che vi ho portato, a te e a mamma, quello della mia commedia?».

«No, signore. Ossia, solo un po’,» rispose Hap «perché, ecco, non riuscivo a seguire. Mi spiace, ma credo proprio di non essere all’altezza.» Poi, illuminandosi: «Però non vedo l’ora di vederla recitare, domani sera». Una lunga pausa. Poi: «Ma, in sostanza, di che si tratta?».

Winters si alzò e andò a guardare dalla finestra aperta. Oltre la zanzariera saliva il dolce sussurrìo dei grilli. «Si tratta di un uomo che perde il suo posto accanto a Dio perché non sa o non vuole dominare i propri atti. Si tratta…» Volse la testa di scatto e sorprese il figlio in atto di guardare l’orologio. La delusione gli diede una fitta al cuore. Attese di calmarsi, poi, sospirando, disse: «Be’, ne parleremo un’altra volta, figliolo. Mi rendo conto solo adesso di quanto è tardi».

Andò alla porta. «Buonanotte, Hap.»

Passò oltre la camera della moglie, diretto alla terza stanza in fondo al corridoio. Si spogliò lentamente, avvertendo ancor più forte quella sensazione di desiderio insoddisfatto. Per un fuggevole secondo pensò di svegliare Betty, per parlare e magari… Ma no. Questo non è mai stato il suo stile , si disse. E già fin da prima che dormissimo insieme. E dopo la Libia e i sogni e i pianti notturni, chi potrebbe biasimarla di voler far camera a parte…

S’infilò nel letto in mutande, e si lasciò cullare dalla melodia dei grilli. E poi, lei ha il suo Dio, e io la mia disperazione. Fra noi non c’è più altro che Hap. Ci accoppiamo come estranei, entrambi timorosi d’una qualsiasi scoperta.

10

«La sala comunicazioni chiude fra cinque minuti. La sala comunicazioni chiude fra cinque minuti.» La voce asessuata del disco sembrava stanca. Carol Dawson non lo era di meno. Stava parlando al videotelefono con Dale Michaels, e la consolle sottostante allo schermo e alla telecamera era disseminata di fotografie.

«Va bene, credo che tu abbia ragione» stava dicendo. «Per risolvere ’sto rompicapo, l’unico modo è che io ti porti a Miami tutte le foto e il registratore del telescopio.» Un sospiro seguito da uno sbadiglio. Poi: «Verrò domattina presto, col volo che arriva alle sette e mezzo, così il laboratorio potrà dare subito un’occhiata ai dati registrati. Ricorda, però, che devo essere di ritorno in tempo per andare, alle quattro, a prendere il tridente. Ce la farà, il laboratorio, a elaborare tutti i dati in un paio d’ore?».

«Il difficile non sta nell’elaborazione, ma nell’analisi e nell’imbastimento di una storia che stia in piedi. E, farlo in una o due ore, sarà dura…» Il dottor Dale sedeva sul divano del salotto del suo spazioso appartamento di Key Biscayne. Davanti, sul tavolino da caffè, aveva una magnifica scacchiera di giada a caselle verdi e bianche. Su di essa rimanevano sei pezzi intagliati: le due regine e quattro pedoni, due per ciascun campo. «Mi rendo conto dell’importanza che questo ha per te» proseguì, dopo una pausa, guardando intensamente la telecamera. «E, per aiutarti, ho cancellato la mia riunione delle undici.»

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