Arthur Clarke - Culla

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Un missile top secret che svanisce in volo. Un tridente d’oro che cambia sorprendentemente forma. Una caverna subacquea custodita da balene... Qualcosa si nasconde nel fondo marino al largo di Key West, un mistero in parte umano ma nello stesso tempo terribilmente alieno. Il suo potere è immenso e terrificante e potrebbe distruggere ogni forma di vita sulla Terra. Ma qualcuno ha deciso di scoprire il terribile segreto. E da quel momento non esiste più alcuna certezza, nessun luogo sicuro in cui nascondersi, nessuna alleanza su cui poter contare. Intorno a una giornalista bella e ambiziosa, disposta a correre qualsiasi rischio pur di arrivare alla verità, si stringe la rete di una cospirazione implacabile: spie militari, killer spietati, ma soprattutto una forza estranea e sconosciuta, le cui mosse nessuna mente umana potrebbe comprendere e prevedere... L’inesauribile immaginazione di Arthur C. Clarke spazia in questo nuovo romanzo dagli enigmi irrisolti del passato alle soglie indecifrabili del futuro, dagli infiniti oceani di stelle all’imperscrutabile fondo del mare. In un appassionante viaggio ai confini della realtà, Culla esplora i percorsi dell’avventura e dell’ignoto.

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Prendendolo quindi a braccetto mentre, lasciato il carretto, tornavano indietro di qualche passo, continuò ridendo: «E chissà: visto che ogni tanto capito nelle Key, potremmo bere qualcosa insieme e tu potresti raccontarmi qualche altra delle tue storie». Qualche centinaio di metri più in là, si distingueva a stento il faro orientabile sopra il tendaletto della Florida Queen. «Vedo che il tuo amico professore è ancora al lavoro. In fatto di addii — anzi, di maniere in genere, direi —, non è uno che si sprechi.»

Si girò, dando l’altro braccio a Troy, e tornò con lui al carretto. Attraversarono la capitaneria, apparantemente deserta, senza più parlare. Caricato il baule sulla giardinetta, Carol si congedò da Troy con un abbraccio. «Sei un brav’uomo, Troy Jefferson. Ti auguro ogni bene.»

Quando Troy tornò alla barca, trovò Nick quasi pronto a sbarcare. «Ha un’aria abbastanza innocente, eh, Troy?» disse, alludendo alla piccola sacca sportiva che stava preparando. «Nessuno sospetterà mai che contenga uno dei grandi tesori dell’oceano.» Dopo una pausa, cambiò argomento. «L’hai sistemata in macchina? Bene. È un tipetto strano, non ti pare? Petulante e aggressiva, però anche carina. Mi domando che cos’è che la muove.»

Chiuse la lampo della sacca e passò a fianco del tendaletto. «Per stasera, limitati a mettere a posto gli attrezzi da immersione. Il resto, lascialo perdere: sistemeremo domani. Io adesso vado a casa a sognar ricchezze.»

«A proposito di ricchezze, professore,» disse Troy con un sorriso «e quei cento dollari che t’ho chieso in prestito martedì? Tu mi hai detto solo un “vedremo”, ma una risposta vera non me l’hai poi data.»

Nick gli si avvicinò con passo deciso, gli si piantò davanti, poi rispose, scandendo le parole: «Avrei dovuto fare il mio discorso alla Polonio a entrambi fin dalla prima volta che mi hai chiesto un prestito. Così, invece, io ora faccio quello che presta e tu quello che prende in prestito, e la cosa non mi garba. Ti presterò dunque cento dollari, signor Troy Jefferson, ma sia chiaro che questa è l’ultima volta. E fammi la cortesia di non venirmene a chiedere più, perché questi prestiti per le tue sedicenti invenzioni mi rendono difficile lavorare con te».

Un po’ sorpreso dall’inattesa durezza di tono di Nick, e irritato dall’allusione implicita nell’ultima frase, Troy rispose piano, frenandosi: «Intendi forse che io non direi la verità e che i soldi non andrebbero in elettronica? O vuoi dire che non credi che un nero senza istruzione possa mai inventare qualcosa di buono?».

«Risparmiami la tua giusta indignazione razziale» rispose Nick, tornando a piantarglisi di fronte. «Qui non si tratta di pregiudizi o menzogne, ma solo e semplicemente di soldi. Il mio prestarteli manda a puttane la nostra amicizia.» Troy fece per ribattere, ma Nick lo bloccò con un cenno. «È stata una giornata lunga, e anche affascinante, volendo. Quello che avevo da dire sull’argomento prestiti, l’ho detto; quindi, chiudiamola lì.»

Raccolta la sacca, gli diede la buonanotte e sbarcò. Troy passò dietro il tendaletto a sistemare l’attrezzatura da immersione. Una decina di minuti dopo, mentre stava finendo, si udì chiamare per nome. «Troy… Troy, sei tu?» diceva una voce dall’accento straniero.

Si sporse dal tendaletto e vide Greta sulla gettata, sotto la luce fluorescente. Benché avesse rinfrescato, portava il solito bikini ridottissimo, che metteva in rilievo il suo splendido fisico. «Questa poi… Ma è la supercrucca!» esclamò Troy con un gran sorriso. «E come stai, accidenti a te? Vedo che non hai smesso di prenderti cura di quel tuo meraviglioso corpo…»

Greta abbozzò un sorriso. «Homer, Ellen e io diamo un piccolo party, stasera. E siccome ti abbiamo visto lavorare fino a tardi, abbiamo pensato che magari ti andava di raggiungerci, quando avrai finito.»

«Potrebbe andarmi sì» disse Troy, assentendo col capo. «Già, potrebbe proprio andarmi.»

9

«Oh, Dio, non possiamo finire qui, una volta per tutte? Concedilo, ti prego. C’è tanta pace, ora…» La donna parlava alle stelle e al cielo. Il vecchio sulla sedia a rotelle reclinò il capo ed esalò l’ultimo respiro. Hannah Jelkes gli s’inginocchiò accanto per vedere se fosse morto davvero; poi, baciatolo sulla corona del capo, alzò al cielo un sorriso colmo di serenità. Calò il sipario. Qualche secondo dopo tornò su, mentre gli attori al completo si riunivano sulla scena.

«Bene, per stasera è tutto: bravi.» Il regista, Melvin Burton, un uomo sui sessanta appena passati, capelli grigi che cominciavano a diradarsi al culmine della testa, si accostò al palcoscenico d’un balzo. «Ottima prova, Henrietta. Vedi di ripeterla identica domani sera alla prima: proprio la combinazione giusta di forza e vulnerabilità!» Poi, saltando agilmente sul palcoscenico: «In quanto a te, Jessie, se mi fai Maxine anche solo un pelo più sensuale, qui ci fanno chiuder baracca». Girò quindi sui tacchi con gesto teatrale e si unì alla risata di due altre persone sedute in quarta fila.

«Bene, ragazzi,» continuò, rigirandosi verso gli attori «ora andate a casa e prendetevi un bel po’ di riposo. Stasera è andata meglio: la prova mi è sembrata buona. Oh, comandante: lei e Tiffani non potreste fermarvi un momento, dopo che vi siete cambiati? Avrei ancora un paio di suggerimenti per voi.»

Saltò dal palcoscenico e tornò alla quarta fila, dove sedevano i suoi due associati. Uno era una donna, anche più anziana di lui ma con occhi verdi sfavillanti dietro gli occhiali da nonna, e vestita di un abito stampato in cui rilucevano tutti i colori della primavera. L’altro era un uomo sulla quarantina, dal viso serio e dai modi franchi e affabili. Melvin si accomodò loro accanto tutto in agitazione. «Quando abbiamo scelto la Notte dell’iguana , ero preoccupato che potesse essere troppo difficile per Key West. Non è infatti famosa come Un tram che si chiama desiderio o Lo zoo di vetro , e i personaggi sono, per certi versi, altrettanto peregrini di quelli di Improvvisamente, l’estate scorsa. Ma adesso sembra quasi perfetta. A patto di metter a posto le scene fra Shannon e Charlotte.»

«Ti penti di aver aggiunto il prologo?» chiese la donna. Amanda Winchester era un’istituzione, a Key West. Fra le altre cose, era la decana degli impresari teatrali che avevano rivitalizzato la città. Proprietaria di due dei nuovi teatri della zona del porto e responsabile della formazione di almeno tre compagnie diverse di repertorio, amava il teatro e la sua gente. E Melvin Burton era il suo regista preferito.

«Tutt’altro, Amanda. È un miglioramento, direi, perché dà un primo assaggio del senso di frustazione generato dal portare un gruppo di battiste in un giro estivo del Messico. E, senza la scena di sesso in quella stanzetta d’albergo, dubito che la relazione fra Charlotte e Shannon sarebbe credibile per il pubblico.» Dopo una pausa di riflessione aggiunse: «Huston, del resto, ha fatto lo stesso nel film».

«Qui, però, la scena di sesso stride» obiettò l’uomo. «Anzi, è quasi comica. Gli abbracci che i due si scambiano sembrano quelli di mio fratello con le figlie.»

«Pazienza, Marc» disse Melvin.

«Sì: o si rimedia, o è meglio eliminare il prologo» concordò Amanda. «Ha ragione Marc: la scena, come l’abbiamo veduta stasera, è quasi comica, e questo dipende in parte dal fatto che Charlotte sembra una bambina, quando la recita.» Dopo una pausa, continuò: «Vedi, ha dei capelli lunghi che sono uno splendore, e noi glieli impiliamo sulla testa per farla sembrare austera e come si deve. Ora, è vero che, con il caldo che fa d’estate in Messico, non può certo portarli sciolti per tutta la giornata; però, se li sciogliesse nel momento di andare nella camera di Shannon… eh?».

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