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Harry Harrison: Le stelle nelle mani

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Harry Harrison Le stelle nelle mani

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Esiste oggi, per uno scienziato, la possibilità di controllare l’uso delle sue scoperte? L’uomo che scompare dal suo laboratorio di Tel Aviv all’inizio di questo romanzo, non si fa molte illusioni al riguardo. Tenta ugualmente, con uno dei paesi più pacifici e democratici che l’Europa conosca: la piccola Danimarca. E subito tutti i servizi segreti delle grandi potenze sono in allarme. La quieta Copenhagen si trova da un giorno all’altro nell’occhio del ciclone. Ciò che le spie, gli agenti, gli informatori riescono a ricostruire non è molto e non ha molto senso: un’esplosione, una nave danneggiata in porto, un certo numero di alte personalità danesi ferite. Non si vede bene quale nesso ci sia tra questo fiasco e le stelle. Eppure, sott’acqua, si sta preparando qualcosa di fantastico.

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— Non so di che cosa stiate parlando — replicò l’altro freddamente, strappandosi di testa il berretto e ficcandolo in tasca.

Nils si spostò lungo la panca per metterglisi di fronte.

— Naturale. Quello Skou è veramente misterioso. Però ha poca fantasia, quando si tratta di travestimenti. Scommetto che vi hanno prelevato in gran fretta per un lavoro segreto, e vi hanno scodellato qui.

— Come fate a saperlo? — fece l’altro, sedendosi più eretto.

— Fiuto. — Nils si levò il berretto e lo indicò. Poi guardò meglio in faccia il compagno di viaggio. — Ma dove vi ho già visto? Forse a qualche festa, o su qualche rivista? Non siete quello del sommergibile che collaborò al salvataggio di un 707, al largo della costa? Carlsson, Henriksen o qualcosa del genere.

— Henning Wilhelmsen.

— Io mi chiamo Nils Hansen.

Dopo le presentazioni, si strinsero la mano e all’improvviso la tensione diminuì. Faceva caldo nella piccola cabina, e Nils si sbottonò il cappotto. Il motore pulsava regolarmente, mentre si staccavano dalla riva.

Wilhelmsen guardò l’uniforme dell’altro passeggero.

— Non è singolare? — commentò. — Un comandante della marina e un pilota della SAS che se ne vanno a spasso per l’Øresund su una vecchia carcassa come questa. Che cosa vorrà dire?

— Forse la Danimarca possiede una portaerei di cui noi non sappiamo niente!

— E allora, io che c’entro? Dovrebbe essere una portaerei sommergibile, ma in tal caso ne avrei senz’altro sentito parlare. Che ne dite di berci qualcosa?

— Il bar non è aperto.

— Chi lo dice? — Wilhelmsen tirò fuori da una tasca laterale una fiaschetta ricoperta di cuoio. — Il motto dell’equipaggio di un sottomarino è: Siate sempre pronti.

Nils fece schioccare involontariamente la lingua mentre il liquido scuro veniva versato nella tazza di metallo. — Non posso bere, se devo volare nelle prossime dodici ore.

— Sarà molto improbabile, direi. A meno che questa carcassa non metta fuori un paio di ali. E poi, questa è roba della marina; assolutamente analcolico.

— Accetto l’offerta.

Il liquore li tirò su di morale. Dopo aver ronzato intorno all’argomento per un poco, si scambiarono le rispettive informazioni, ma scoprirono soltanto di non sapere niente. Erano diretti verso un luogo imprecisato, per ragioni ignote. Guardarono il sole che si andava abbassando, e di comune accordo dichiararono che l’unico lembo di terra danese situato in quella direzione era l’isola di Bornholm, e che, con quell’imbarcazione leggera, non potevano certo raggiungerla. Mezz’ora dopo, il loro interrogativo ebbe risposta: il motore della lancia si spense e gli oblò di tribordo si oscurarono all’improvviso.

— È sicuramente una nave — disse Henning Wilhelmsen sporgendo la testa dalla porta. — La Vitus Bering.

— Mai sentita nominare.

— Io sì. È una nave dell’Istituto della Marina e ci sono stato anche a bordo. L’anno scorso, quand’era nave appoggio del Blaeksprutten , il piccolo sottomarino sperimentale che io stesso ho collaudato.

Alcuni passi rimbombarono sul ponte e un marinaio guardò dentro, chiedendo il bagaglio. Glielo diedero e lo seguirono su per la scaletta. Un ufficiale della nave li pregò di seguirlo nel quadrato, poi fece strada. Là c’erano ad aspettarli più di dodici militari in uniforme, rappresentanti di tutte le forze armate, e quattro tipi in borghese. Nils ne riconobbe due: un uomo politico che una volta aveva volato sul suo aereo come passeggero, e il professor Rasmussen, vincitore del Premio Nobel.

— Sedete, signori — disse Ove Rasmussen. — Ora vi spiegherò perché siamo tutti qui riuniti.

All’alba del mattino seguente erano nel Baltico, in acque internazionali, a cento miglia da terra. Arnie aveva dormito male: non aveva la stoffa del marinaio, e il rollio della nave l’aveva tenuto sveglio. Arrivò sul ponte per ultimo, e raggiunse gli altri che guardavano come il Blaeksprutten veniva estratto dalla stiva.

— Ha l’aria di un giocattolo — disse Nils Hansen. Il gigantesco pilota, pur portando ancora il berretto della SAS, indossava ora, come tutti gli altri, un paio di stivaloni di gomma, un maglione, e pesanti pantaloni di lana, adatti al tagliente vento artico. Era una giornata invernale, con le nubi basse e l’orizzonte vicino.

— Non è un giocattolo, ed è più grande di quello che sembra — osservò Wilhelmsen, calorosamente. — Con un equipaggio di tre uomini, può ancora portare un paio di osservatori. Si tuffa bene, i comandi sono buoni, raggiunge un’ottima profondità…

— Però mancano le eliche — disse Nils, cupo, ammiccando agli altri presenti. — Devono essere saltate via.

— Questo è un sottomarino, mica una delle vostre macchine volanti! Ha turbine idrauliche e motori a reazione, proprio come quei vostri stupidi bestioni. Ecco perché si chiama Blaeksprutten… Si muove sfruttando la spinta dell’acqua, come le seppie.

Arnie colse lo sguardo di Ove, e chiamò il collega in disparte, con un cenno.

— Una giornata ideale per l’esperimento — disse premendo la lingua contro gli incisivi rimessi, che sentiva ancora estranei. — La visibilità è ridotta e sul radar non compare assolutamente niente. Un aeroplano delle forze aeree ha fatto un volo di ricognizione: la nave più vicina è a centoquaranta chilometri. Ed è soltanto una nave da carico polacca.

— Vorrei essere a bordo, durante l’esperimento, Ove.

Ove gli mise amichevolmente le mani sulle spalle. — Lo credo, mio caro… Io non voglio affatto prendere il tuo posto, ma il ministro pensa che tu sia troppo importante per farti correre grossi rischi, la prima volta. E, secondo me, ha ragione. Comunque, sarei disposto a fare come dici tu, se potessi: solo che non me lo permettono. L’ammiraglio ha ordini precisi e pretenderà che vengano eseguiti. Non preoccuparti, avrò cura del tuo pargoletto! Abbiamo eliminato quell’armonica di disturbo e non c’è altro che possa fare cilecca. Vedrai.

Arnie si strinse nelle spalle, rassegnato, sapendo che sarebbe stato inutile insistere.

Dopo molte oscillazioni e molti ordini gridati col megafono, il piccolo sottomarino fu staccato dalla nave e deposto in mare. Wilhelmsen sgattaiolò giù per la scaletta prima ancora che toccasse la superficie liquida dell’acqua, e con un balzo fu a bordo. Sparì nel boccaporto della torretta di comando, e pochi minuti dopo qualcosa rombò sott’acqua, e i motori si mossero. Henning sbucò di nuovo dal boccaporto e salutò con la mano. — Venite a bordo! — gridò.

Ove prese la mano di Arnie. — Andrà tutto bene — disse. — Abbiamo effettuato dodici controlli diversi dopo l’installazione dell’unità Daleth.

— Lo so, Ove. In bocca al lupo!

Rasmussen scese la scaletta, seguito da Nils Hansen, ed entrarono tutt’e due nel boccaporto, richiudendolo subito.

— Mollare! — gridò Henning. La sua voce rimbombò nell’altoparlante collegato alla radio a onde corte a bassa frequenza, che era stata installata sul ponte. Le gomene furono sciolte, e il piccolo sottomarino cominciò ad allontanarsi. Arnie agguantò il microfono.

— Allontanatevi di trecento metri, prima di iniziare resperimento!

Ja vel!

I motori della Vitus Bering erano stati spenti, e la nave rollava sul mare tranquillo. Arnie si teneva stretto al parapetto e guardava il Blaeksprutten allontanarsi. Sembrava calmo come al solito, ma sentiva il cuore battere più in fretta di quanto gli fosse mai capitato. La teoria è una cosa, la pratica un’altra… come avrebbe detto Skou! Sorrise tra sé. Quello era resperimento finale.

Aveva un binocolo appeso al collo, e se lo portò agli occhi mentre il sottomarino compiva un’ampia virata intorno alla nave. Attraverso le lenti, il Blaeksprutten appariva distintamente: si muoveva sicuro, mentre le onde si rompevano contro lo scafo quasi completamente sommerso.

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