— È proprio ciò che siamo venuti qui a vedere. L’effetto Daleth è stato dimostrato in teoria e in limitati esperimenti di laboratorio. Ma questa è la prima volta che si tenta di collaudarlo su una scala più vasta, che permetta di appurare se potrà essere universalmente applicato o no. Poiché le difficoltà e le precauzioni che comporta l’allestimento di un simile esperimento sono davvero notevoli, si è deciso di richiedere la presenza degli osservatori, anche se vi è una possibilità di insuccesso.
— Che genere di insuccesso? — chiese una voce, irritata.
— Lo vedrete chiaramente tra pochi minuti… — Il telefono suonò, e Ove si interruppe. — Sì?
— Sei pronto?
— Sì. Energia al minimo, per cominciare?
— Al minimo. Via.
— Signori, siete pregati di osservare la nave — disse Ove, coprendo con una mano il microfono.
C’era ben poco da vedere. Turbini di neve sottile passavano attraverso i coni di luce delle lampade accese lungo la banchina. La passerella della Isbjorn era stata ritirata e gli uomini se ne stavano allineati sulla riva, tenendo le gomene di poppa e prua, che erano state allentate. La corrente aveva staccato la nave dal molo e si scorgeva un tratto di acqua scura. Le onde gorgogliavano e schiaffeggiavano lo scafo e il muro di pietra del molo.
— Ancora niente — disse Ove.
— Aumento l’emissione.
I presenti battevano i piedi per il freddo e si udiva un mormorio irritato.
Uno degli osservatori si voltò verso Ove, pronto a protestare, quando un gemito improvviso riempì l’aria. Sembrava venire contemporaneamente da tutte le direzioni, ed era come se tutte le strutture dello scheletro della nave vibrassero. Questo penoso effetto sonoro si esaurì rapidamente, anche se la vibrazione continuò con minore intensità, come la corda di una bassa viola celestiale che suonasse per sé sola, oltre il limite estremo del mondo.
Quando il suono morì, si udì uno scricchiolio sulla Isbjorn. Prima a poppa, poi a prua. Sul ponte si alzarono grida eccitate. La nave fu scossa da una specie di brivido, e piccole onde le si sollevarono intorno succhiandone lo scafo.
— Buon Dio! guardate! — ansimò qualcuno. — Incredibile!
Quasi fosse montata sopra un gigantesco pistone sottomarino, l’intera massa del grosso rompighiaccio si stava lentamente sollevando dall’acqua. Prirna uscì la scritta poi il fondo rosso dello scafo. Oscure macchie di cirripedi si mostravano qua e là, e più in basso, fasci di alghe dondolavano mollemente. A poppa apparve la parte inferiore del timone, e presto anche tutte le pale gocciolanti dell’elica furono fuori dall’acqua. I marinai, a riva, mollarono rapidamente le gomene che andavano tendendosi sempre più.
— Che succede? Che c’è? — gridò uno degli osservatori. Ma la sua voce fu soffocata dalle grida eccitate degli altri.
La neve ora scendeva meno fitta e veniva portata via dal vento in piccoli turbini. Le lampade della banchina illuminavano chiaramente la nave e il mare, e l’acqua grondava dal rompighiaccio con uno scroscio più forte del frangersi delle onde contro il muro di pietra.
La chiglia era ormai un metro buono sopra la superficie del canale Yderhavn.
— Arnie, vittoria! Ce l’hai fatta! — Ove afferrò il ricevitore, fissando sempre la massa di parecchie migliaia di tonnellate della nave che gli galleggiava davanti, senza alcun sostegno, nell’aria. — È almeno un metro sopra la superficie, ora. Riduci l’energia adesso, riducila…
— È quello che sto facendo… — La voce dello scienziato era tesa. — Ma si sta formando un’armonica, un’onda stazionaria…
Le parole svanirono nel gemito metallico che giunse dalla Isbjorn e la nave sembrò rabbrividire. Poi, tutt’a un tratto, la poppa sprofondò nell’acqua come se un sostegno invisibile fosse stato rimosso.
Si udì il fragore di una cascata gigantesca, che aumentò in un crescendo impressionante. Un istante dopo, impennandosi come una belva che stia per attaccare la preda, un’onda d’acqua nera si levò alta sopra il bordo della banchina, restò in bilico, un metro o due al disopra di essa, poi si abbatté, trasformandosi istantaneamente in una gorgogliante, spumeggiante marea alta fino al ginocchio, che si avventò sugli osservatori e andò a frangersi con alti spruzzi contro il muro posteriore. Buttò a terra le persone, ammucchiandole una sull’altra, per poi separarle di nuovo, e infine le lasciò in secca come pesci sulla spiaggia, ritirandosi in un ampio manto di buio.
Quando tutto fu finito, si levarono gemiti e grida.
— Qui c’è l’ammiraglio!
— Non muovetelo… Ha una gamba rotta o qualcosa di peggio!
— Liberatemi…!
— Chiamate un’ambulanza! Quest’uomo è ferito.
Si udì il tonfo pesante degli stivali sulla pietra, mentre le guardie si avvicinavano di corsa. Qualcuno parlava forte dentro una ricetrasmittente della polizia. Sulla Isbjorn si udiva un gran fracasso di lamiere, e la nave dondolava avanti e indietro. La voce del capitano si levava alta sopra le altre.
— Imbarchiamo acqua da poppa… i tappi di legno, idioti! Lasciate che metta le mani su quelli che hanno combinato questo disastro!
L’urlo assordante delle sirene della polizia, si fece più vicino e in distanza si udì anche il fischio delle autoambulanze. I fari avanzarono a tutta velocità lungo la banchina, mentre l’acqua ricadeva dalla sponda in cento piccole cascate.
Ove se ne stava lì, allibito, spiaccicato contro il muro, bagnato fino al midollo e impigliato nel cavo del telefono. Si tirò su a sedere con fatica e appoggiò la schiena contro la pietra dura, contemplando quella scena frenetica di uomini urlanti, con la nave che oscillava sullo sfondo. Era scosso dalla rapidità con cui si era verificata la catastrofe, dalla vicinanza di tutti quei feriti e, forse anche di morti. Era terribile!
Ma, al tempo stesso, si sentì invadere da un tale sentimento di esultanza, che per poco non si mise a urlare. L’esperimento era riuscito! Ce l’avevano fatta! L’effetto Daleth era proprio come Arnie aveva previsto.
C’era qualcosa di nuovo nel mondo, qualcosa che non era mai esistito prima, e da quel momento in poi la terra non sarebbe stata più la stessa. Sorrise nel buio, senza preoccuparsi del sangue che gli scorreva lungo il mento e dei quattro denti anteriori che non erano più al loro posto.
La neve continuava a cadere, incessante, stendendo un lenzuolo opaco che poi si sollevava, ogni tanto, per concedere una semplice occhiata tentatrice. L’uomo che se ne stava sull’altra sponda del canale dell’Yderhavn imprecava tra sé, di tanto in tanto, con voce gutturale. Non era riuscito a fare di meglio, con un preavviso così breve. E non bastava.
Se ne stava sul tetto di un magazzino, a circa ottocento metri dalla banchina di Langelinie. Era una zona quasi completamente deserta, quando scendeva il buio, e non gli era stato difficile evitare i pochi guardiani notturni e i poliziotti che passavano di lì. Aveva un ottimo cannocchiale, ma non riusciva a vedere niente, con un tempo simile. La neve aveva cominciato a cadere subito dopo che le auto delle personalità erano giunte sulla banchina, e non aveva smesso più.
Erano state le auto a risvegliare il suo interesse, lo spostamento, a quell’ora così tarda, di un certo numero di autorità militari che lui teneva d’occhio abitualmente. Non aveva idea di che cosa significasse. Si erano recate in quel maledetto posto nel cuore della notte, nel bel mezzo di una tempesta di neve, per starsene lì a guardare un vecchio rompighiaccio schifoso che andava a carbone. Imprecò di nuovo e sputò nel buio. Era un uomo brutto, e lo diventava ancora di più quando era sconvolto dall’ira; aveva le labbra sottili, la testa tonda, il collo taurino, i capelli grigi e sottili tagliati così corti, che sembrava rasato a zero.
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