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Harry Harrison: Le stelle nelle mani

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Harry Harrison Le stelle nelle mani

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Esiste oggi, per uno scienziato, la possibilità di controllare l’uso delle sue scoperte? L’uomo che scompare dal suo laboratorio di Tel Aviv all’inizio di questo romanzo, non si fa molte illusioni al riguardo. Tenta ugualmente, con uno dei paesi più pacifici e democratici che l’Europa conosca: la piccola Danimarca. E subito tutti i servizi segreti delle grandi potenze sono in allarme. La quieta Copenhagen si trova da un giorno all’altro nell’occhio del ciclone. Ciò che le spie, gli agenti, gli informatori riescono a ricostruire non è molto e non ha molto senso: un’esplosione, una nave danneggiata in porto, un certo numero di alte personalità danesi ferite. Non si vede bene quale nesso ci sia tra questo fiasco e le stelle. Eppure, sott’acqua, si sta preparando qualcosa di fantastico.

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— I furgoni postali non sono proprio invisibili, ma sono quanto più si avvicina all’optimum — disse Skou. — Questo arriverà all’ufficio centrale di K.øbmagergade, insieme con molti altri furgoni della stessa forma e del medesimo colore e ne uscirà pochi minuti dopo, con nuovi numeri, naturalmente, per dirigersi alla banchina. Propongo, signori, di recarci là anche noi per accoglierlo all’arrivo.

Skou fece salire i due scienziati sulla sua auto, una Opel di pessimo aspetto, e si infilò in parecchi vicoli angusti, entrando e uscendo dalla corrente del traffico, finché non fu certo di non essere seguito. Parcheggiò vicino alla darsena dei panfili e andò in cerca di un telefono, mentre gli altri due proseguivano a piedi. Un vento tagliente spazzava le acque dell’Øresund, soffiando direttamente dalla Svezia e dall’Oceano Artico. Il cielo era grigio.

— C’è aria di neve — disse Ove.

— È quella, la nave? — domandò Arnie, guardando verso l’estremità del molo Langelinie, dove stava ormeggiato un solo vascello.

— Sì, la Isbjorn. Sembra molto adatta alle nostre esigenze. Dopo tutto, non sappiamo con sicurezza quale sforzo dovrà sopportare, e, per quanto vecchia, è sempre un rompighiaccio. L’ho vista per buona parte dell’inverno scorso, occupata a tener libero il canale.

Due poliziotti, massicci nei loro ampi cappotti, guardavano in direzione della Svezia e ignorarono il loro passaggio.

— Skou ha sguinzagliato i suoi cani da guardia — commentò Ove.

— Non credo che avranno molto da fare. Con un tempo simile, non ci saranno molti spettatori.

La nave torreggiava sopra di loro, con la murata nera tempestata di file di chiodi ribaditi. La passerella era abbassata, ma non si vedeva nessuno sul ponte. Salirono lentamente, mentre il piano inclinato scricchiolava sotto i loro passi.

— Un pezzo da museo — disse Ove quando ebbero raggiunto il ponte. — Ma è un po’ troppo fuligginosa.

Un nastro sottile di fumo si levò dal fumaiolo sovrastante la caldaia a carbone.

— Vecchia, ma robusta — osservò Arnie, indicando il massiccio rinforzo della prua. — I rompighiaccio della nuova generazione salgono sopra la crosta ghiacciata e la spezzano con il loro peso. Ma questo vecchio esperto usa il metodo forte, e si fa strada fracassandola. È stata una scelta intelligente. Ma dove sono finiti gli altri?

Quasi in risposta alla sua domanda, la porta della cabina del timoniere si spalancò e sulla soglia apparve un ufficiale in giacca e stivali neri, con una gran barba da pirata che gli nascondeva la parte inferiore del viso. Si avvicinò ai due con passo pesante, ed eseguì un saluto impersonale.

— Immagino che voi siate i signori che ho l’ordine di attendere. Io sono il capitano Hougaard, il comandante. — Non c’era il minimo calore nel suo tono e nei suoi modi.

I due gli strinsero la mano, imbarazzati perché Skou aveva proibito di dire il loro nome.

— Grazie per averci permesso di salire a bordo, capitano. Siete stato molto gentile a mettere a disposizione la vostra nave — azzardò Ove, in tono conciliante. Ma l’altro non era certo di umore pacifico.

— Non avevo alternative — replicò. — Mi è stato ordinato così dai superiori. I miei uomini se ne stanno sotto, come specificano gli ordini.

— Molto gentile — ripeté Ove, cercando con tutte le forze di tenere lontana l’ironia dalla voce. In quel momento si udì lo stridere dei freni, e il furgone postale si fermò sulla banchina sottostante: un’interruzione provvidenziale. — Volete essere tanto cortese da far portare quassù le casse che sono sul furgone?

Per tutta risposta, il capitano gridò qualcosa con voce tonante dentro un boccaporto, e mezza dozzina di marinai arrivarono di corsa. Gli uomini sembravano assai più interessati di Hougaard a ciò che stava accadendo, e forse erano contenti di poter rompere la monotonia quotidiana.

— Piano, con quelle! — disse Arnie, mentre portavano le scatole su per la passerella. — Non lasciatele cadere e non scuotetele troppo.

— Non potrei trattarle più delicatamente se ci fosse dentro mia madre — dichiarò un gigantesco marinaio biondo, dalle larghe basette che si perdevano in un paio di mustacchi eroici. E, mentre il capitano non guardava, il giovanotto strizzò l’occhio agli sconosciuti.

Klein e Rasmussen avevano studiato accuratamente la pianta della nave e scelto la sala macchine come il posto più adatto alle loro esigenze. L’estremità verso prua era stata separata con una parete schermata, ricavandone una stanzetta per l’elettricista, con tutto l’occorrente e un banco di lavoro. C’erano il pannello degli interruttori e il generatore, e, cosa ugualmente importante, si era in contatto con la superficie esterna dello scafo. Le casse furono portate lì e, sotto lo sguardo vigile dei due fisici, deposte delicatamente a terra. Quando tutti gli uomini se ne furono andati, il capitano fece un passo avanti.

— Mi e stato detto che il vostro lavoro deve svolgersi in assoluta riservatezza. Tuttavia, poiché bisogna accendere una delle caldaie, un meccanico dovrà restare qui fuori…

— Benissimo — lo interruppe Arnie.

— … e quando verrà effettuato il cambio della guardia, sostituirò l’uomo personalmente. Se desiderate mettervi in contatto con me, sarò nella mia cabina.

— Va bene. E grazie per la collaborazione, capitano. — Lo guardarono allontanarsi. — Temo che tutto questo non gli vada troppo a genio — disse Arnie.

— Credo però che non possiamo permetterci di preoccuparcene. Sballiamo il materiale.

La sistemazione dell’attrezzatura occupò la maggior parte della giornata. C’erano quattro unità principali, apparecchi elettronici non identificabili nei loro armadietti di metallo nero, tempestati di quadranti. Alcuni grossi cavi con serrafili multipli si intersecavano, e un cavo ancora più grosso correva alla presa dell’energia. Mentre Arnie si affaccendava attorno agli apparecchi, Ove Rasmussen si infilò un paio di guanti di cotone, da operaio, e osservò lo scafo della nave incrostato di vernice e cosparso di chiodi.

— Qui va bene — disse, battendo sopra una centina sporgente. E si mise al lavoro metodicamente, con martello e scalpello, asportando gli spessi strati di vernice che coprivano l’acciaio. Quando ebbe ripulito un’area di una trentina di centimetri, mettendo a nudo il metallo lucente, ci passò sopra vigorosamente una spazzola di fil di ferro.

— Ecco fatto — annunciò poi, contento, levandosi i guanti e accendendo una sigaretta. — Perfettamente pulito. Riusciremo a stabilire il contatto, qui e con l’intero scafo.

— Speriamo. Questo è d’importanza vitale.

Una guida d’onda flessibile a sezione trasversale rettangolare sporgeva da quella che appariva l’unità finale dell’intercollegamento, e terminava in un dispositivo di ottone, di lavorazione complicata, dotato di morsetti a vite. Dopo aver passato un bel po’ di tempo a limare metallo e a imprecare contro l’intrattabilità della materia inerte, Klein e Rasmussen riuscirono finalmente ad assicurare il dispositivo di ottone all’area di metallo preparata. Arnie regolò con cura parecchi comandi e mise in funzione gli apparecchi.

— Da’ un po’ di corrente — disse. — Quanto basta per vedere se abbiamo completato i collegamenti elettrici.

Qualcuno bussò bruscamente alla porta. Ove la socchiuse appena. Fuori c’era il capitano Hougaard, con l’aria più scocciata che mai.

— Sì?

— C’è qui un soldato che desidera parlarvi. — Sembrava che non gli andasse affatto il suo compito di messaggero.

Ove aprì l’uscio quel tanto che bastava per sgattaiolare fuori, poi lo richiuse con cura. Un sergente in uniforme, tutto pimpante, teneva in mano la custodia in cuoio di un telefono da campo. Da questa partiva un cavo che spariva su per la passerella.

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