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Harry Harrison: Le stelle nelle mani

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Harry Harrison Le stelle nelle mani

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Esiste oggi, per uno scienziato, la possibilità di controllare l’uso delle sue scoperte? L’uomo che scompare dal suo laboratorio di Tel Aviv all’inizio di questo romanzo, non si fa molte illusioni al riguardo. Tenta ugualmente, con uno dei paesi più pacifici e democratici che l’Europa conosca: la piccola Danimarca. E subito tutti i servizi segreti delle grandi potenze sono in allarme. La quieta Copenhagen si trova da un giorno all’altro nell’occhio del ciclone. Ciò che le spie, gli agenti, gli informatori riescono a ricostruire non è molto e non ha molto senso: un’esplosione, una nave danneggiata in porto, un certo numero di alte personalità danesi ferite. Non si vede bene quale nesso ci sia tra questo fiasco e le stelle. Eppure, sott’acqua, si sta preparando qualcosa di fantastico.

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Arnie attese pazientemente che tutti gli altri passeggeri fossero scesi. Erano per lo più danesi di ritorno dalle vacanze nei paesi del sole, con facce rosse, raggianti e così tonde che sembravano sul punto di scoppiare. Stringevano in mano borse di paglia o altri ricordi orientali, come cammelli di legno, piastre di ottone, tappetini, e tutti avevano l’immancabile fiaschetta di liquore che gli addetti alla dogana lasciavano passare senza soprattassa. Arnie scese per ultimo. La porta dell’abitacolo del pilota era aperta, e quando lui ci passò davanti vide uno sgabuzzino scuro, stipato di quadranti scintillanti e di interruttori. Il comandante, un tipo alto e biondo, dalla mascella imponente, gli sorrise. Capitano Nils Hansen stava scritto sul distintivo, sopra le ali d’oro.

— Spero che abbiate fatto buon viaggio — disse l’ufficiale in inglese, la lingua internazionale delle linee aeree.

— Davvero ottimo, grazie. — Arnie aveva un distintissimo accento da public school britannica, del tutto contrastante con il suo aspetto esteriore. Ma aveva trascorso gli anni della guerra a Winchester, in una scuola inglese, e la sua pronuncia ne era stata segnata per sempre.

Gli altri passeggeri se ne stavano ordinatamente in coda davanti agli sportelli della dogana, passaporto in mano. Arnie fu lì lì per raggiungerli, poi si ricordò che lui aveva un biglietto per Belfast e che gli mancava il visto danese. Imboccò un corridoio dalle pareti di vetro, si diresse verso la sala d’aspetto, dove sedette sopra uno dei sedili di cuoio nero con cromature, tenendo la valigetta tra le gambe. Con uno sguardo fisso nel vuoto, pensò a cosa gli convenisse fare. Dopo pochi minuti si scosse e sbatté le palpebre: aveva preso una decisione. Si guardò intorno. C’era un poliziotto che camminava su e giù per la sala, imponente nella sua divisa dagli stivaloni di cuoio e dal largo berretto. Arnie gli si avvicinò, e i suoi occhi vennero a trovarsi quasi allo stesso livello del distintivo d’argento sulla spalla dell’altro.

— Desidero vedere il capo della sezione locale del servizio di sicurezza, se non vi spiace.

L’agente lo guardò dall’alto in basso, con aria professionale.

— Se volete dire a me di che si tratta…

Dette kommer kun mig og den vaght avende officer ved. Så må jeg tale med han?

L’inaspettato flusso di parole nella sua lingua sorprese l’agente.

— Siete danese? — domandò.

— Non importa la mia nazionalità — continuò Arnie, sempre nella stessa lingua — posso dirvi soltanto che ciò riguarda la sicurezza nazionale e che la cosa più saggia che possiate fare è di mettermi in contatto con la persona responsabile di queste cose.

Il poliziotto cominciò a cedere. L’ometto parlava con tanta naturalezza che non si poteva fare a meno di credergli.

— Allora venite con me — disse. E, in silenzio, fece strada lungo una stretta balconata che correva in alto sopra la sala principale dell’aeroporto, tenendo d’occhio lo straniero perché non tenr tasse di sparire nell’umida libertà della notte di Kastrup.

— Prego, accomodatevi — disse il capo dei servizi di sicurezza, quando l’agente gli ebbe spiegato la situazione. Era rimasto seduto dietro la sua scrivania, mentre ascoltava, e i suoi occhi avevano fissato Arnie con insistenza, quasi volesse imprimersi bene nella mente il suo aspetto attraverso le lenti rotonde di un paio di occhiali montati in acciaio.

Løitnant Jørgensen — si presentò, quando la porta si fu richiusa e si trovarono soli.

— Arnie Klein.

Må jeg se Deres pas?

Arnie gli allungò il passaporto e l’altro lo guardò, stupito, vedendo che non era danese.

— Siete israeliano, allora! Sentendovi parlare, avevo creduto… — Arnie non rispose e l’altro sfogliò rapidamente il documento, posandolo poi aperto sulla scrivania.

— Mi sembra tutto regolare, professore. Che posso fare per voi?

— Voglio fermarmi in questo paese. Ora.

— Questo è impossibile. Siete qui di passaggio. Non avete il visto. Vi consiglio di arrivare a destinazione e di rivolgervi al console danese di Belfast. Vi rilascerà il visto in un giorno, due al massimo.

— Voglio fermarmi in Danimarca subito. Per questo ho chiesto di parlare con voi perché siate tanto cortese da sistemare la cosa. Sono nato a Copenaghen e sono cresciuto a una quindicina di chilometri da qui. Non dovrebbero esserci difficoltà.

— Sono certo che non ce ne saranno. — L’uomo gli tese il passaporto. — Ma qui, ora, non si può fare proprio niente. A Belfast…

— Sembra che non abbiate capito. — La voce di Arnie era tranquilla come l’espressione del suo viso, ma le parole erano cariche di significato. — Devo assolutamente fermarmi nel paese ora, stanotte. Dovete trovare un sistema. Chiamate i vostri superiori. C’è la faccenda della duplice nazionalità. Sono danese quanto voi.

— Può darsi. — C’era una sfumatura di esasperazione nella voce dell’altro, adesso. — Io però non sono anche cittadino israeliano e voi sì. Temo proprio che dovrete salire sul prossimo aereo…

Le sue parole rimbalzarono nel silenzio profondo: Arnie non le ascoltava. Aveva posato sulle ginocchia la sua valigetta e l’aveva aperta. Poi aveva estratto una rubrica per indirizzi che stava sfogliando attentamente.

— Non vorrei sembrare eccessivo, ma posso affermare che la mia presenza qui ha un’importanza nazionale. Volete, per favore, chiamare questo numero e chiedere del professor Ove Rude Rasmussen? Ne avete sentito parlare?

— Naturalmente. È un Premio Nobel. Ma non si può disturbarlo a quest’ora…

— Siamo vecchi amici, non se ne avrà a male. E ci sono ragioni abbastanza serie da giustificare la, telefonata.

Era passata l’una del mattino e Rasmussen, sentendo lo squillo del telefono, grugnì come un orso disturbato durante l’ibernazione.

— Chi è? Cosa diavolo significa… Sa for Satan!… Sei proprio tu, Arnie. Da dove diavolo telefoni? Da Kastrup? — Poi ascoltò pazientemente, mentre l’altro gli esponeva la situazione.

— Allora, vuoi aiutarmi? — domandò Arnie.

— Ma sicuro! Anche se non so che cosa si possa fare. Aspettami lì. Mi infilo i pantaloni e sono da te.

Passarono tre quarti d’ora. Jørgensen incominciava a sentirsi a disagio in quel silenzio, con lo sguardo vuoto di Arnie fisso al calendario appeso alla parete. Si mise, dunque, con attenzione esagerata, ad aprire un nuovo pacchetto di tabacco; poi si accinse ad accendere la pipa. Se anche Arnie gli fece caso, non lo diede certo a vedere: aveva ben altro a cui pensare. Quando qualcuno bussò alla porta, Jørgensen quasi si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo.

— Arnie… sei proprio tu!

Rasmussen era come nelle foto pubblicate dai giornali: un tipo magro, col viso incorniciato da una barba ricciuta, e senza baffi. I due uomini si strinsero vigorosamente la mano e ci mancò poco che non cadessero l’uno nelle braccia dell’altro, mentre le rispettive facce si illuminavano di un cordiale sorriso.

— Adesso dimmi che cosa diavolo fai qui e perché mi hai tirato giù dal letto a un’ora così impossibile, in una notte così schifosa!

— Devo parlarti da solo.

— D’accordo. — Rasmussen si guardò intorno, e accorgendosi solo allora della presenza di Jørgensen, domando: — Dove possiamo trovare un luogo sicuro per parlare?

— Potete restare in questo ufficio, se volete. Vi posso garantire che è sicurissimo.

Entrambi accettarono, senza accorgersi della sfumatura di ironia che faceva capolino in quelle parole.

Sbattuto fuori dal proprio ufficio!… Che cosa stava accadendo? Jørgensen rimase lì per ben dieci minuti ad aspettare, in corridoio, fumando rabbiosamente la pipa e premendoci dentro il tabacco con il pollice calloso. Poi la porta si spalancò. Rasmussen comparve sulla soglia, col colletto della camicia slacciato e uno sguardo eccitato negli occhi. — Entrate! Entrate! — E quasi trascinò l’altro dentro la stanza, impaziente che la porta venisse subito richiusa.

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