Harry Harrison - Le stelle nelle mani

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Esiste oggi, per uno scienziato, la possibilità di controllare l’uso delle sue scoperte? L’uomo che scompare dal suo laboratorio di Tel Aviv all’inizio di questo romanzo, non si fa molte illusioni al riguardo. Tenta ugualmente, con uno dei paesi più pacifici e democratici che l’Europa conosca: la piccola Danimarca. E subito tutti i servizi segreti delle grandi potenze sono in allarme. La quieta Copenhagen si trova da un giorno all’altro nell’occhio del ciclone. Ciò che le spie, gli agenti, gli informatori riescono a ricostruire non è molto e non ha molto senso: un’esplosione, una nave danneggiata in porto, un certo numero di alte personalità danesi ferite. Non si vede bene quale nesso ci sia tra questo fiasco e le stelle. Eppure, sott’acqua, si sta preparando qualcosa di fantastico.

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Harry Harrison

Le stelle nelle mani

1

L’esplosione che distrusse la parete ovest del laboratorio di fisica dell’Università di Tel Aviv non ferì seriamente il professor Arnie Klein, che in quel momento lavorava nel locale. Un solido banco d’acciaio l’aveva protetto riparandolo dallo spostamento d’aria e dai frammenti volanti, e lui era caduto a terra cavandosela con un piccolo taglio su una guancia.

Quando si rialzò, comprensibilmente scosso, il professore si passò una mano sulla faccia e guardò allibito la punta delle dita sporche di sangue. Quell’angolo di laboratorio era ridotto a un mucchio di macerie e di resti contorti, da cui salivano qua e là sottili spirali di fumo o di polvere.

Il fuoco! Quel pensiero lo scosse. L’apparecchiatura era andata distrutta, ma la relazione dell’esperimento e gli appunti potevano forse essere salvati. Si aggrappò disperatamente a un cassetto contorto dall’esplosione, e tirò finché quello, cigolando, si aprì. Dentro c’era una cartelletta, frutto prezioso di alcune settimane di lavoro. E vicino a questa ce n’era un’altra, dello spessore di quindici centimetri, che conteneva sei anni di fatiche. Le afferrò entrambe e, poiché sulla parete lì accanto si era aperta una comoda breccia, pensò bene di uscire da quella parte. Prima di tutto bisognava mettere al sicuro i documenti: era la cosa più importante.

Il vialetto che portava al retro dell’edificio veniva usato di rado e, nel calore afoso di quel pomeriggio, era deserto. Prima sarebbe stato materialmente impossibile prendere quella scorciatoia, uscendo dal laboratorio, ma ora si poteva arrivare direttamente fino al dormitorio della facoltà. La cartelletta sarebbe stata al sicuro, in camera sua: era una buona idea.

Affrettò il passo, per quanto lo permetteva il cocente vento che spirava dall’Africa. Era talmente assorto nei suoi pensieri, che non si rese conto del fatto che nessuno si era accorto di lui.

A molti, Arnie Klein sembrava lento di comprendonio, ma si sbagliavano… Era semplicemente incapace di seguire più di un’idea per volta, e doveva rimuginarla metodicamente per spremerne fino all’ultima goccia di nutrimento, La sua mente lavorava con precisione straordinaria, macinando tutto con una finezza incredibile. Soltanto grazie a questa sua singolare capacità era potuto restare per sei anni fisso nella stessa direzione e cioè su una complessa catena di ipotesi matematiche fondate soltanto su un’anomalia gravimetrica e una possibile ambiguità in una delle equazioni della teoria di campo di Einstein.

Ora la sua mente era intenta a seguire una nuova linea di pensiero, che aveva già preso in considerazione in precedenza, ma a cui l’esplosione aveva dato un carattere di forte probabilità. E, come al solito, quando si trovava profondamente assorto in meditazione, il suo corpo continuava a svolgere le azioni abituali senza che il suo «io» cosciente se ne rendesse conto. Arrampicandosi sulle macerie, si era impolverato le mani e gli abiti; e poi, aveva il viso sporco di sangue. Si spogliò come un automa, fece una doccia, ripulì la ferita e vi applicò un piccolo cerotto. Solo quando cominciò a rivestirsi, il suo «io» cosciente fece di nuovo capolino. Invece di infilarsi un paio di calzoncini puliti, prese i pantaloni del vestito leggero e li indossò. Infilò una cravatta nella tasca della giacca, poi posò quest’ultima sullo schienale di una sedia. Dopo di che si fermò, in silenzio, per tirare le conclusioni logiche di quella sua nuova idea. Era un uomo di oltre cinquant’anni, ordinato, con i capelli brizzolati e l’aria del tutto comune… Questo, prescindendo dal fatto che riuscì a starsene in piedi, immobile e senza battere le palpebre, per ben dieci minuti, cioè fino a che non ebbe raggiunto la conclusione voluta.

Per il momento, Arnie non sapeva con certezza quale fosse la scelta più saggia; conosceva, però, le possibili alternative. Aprì, dunque, la sua valigetta ancora posata sul tavolino dove l’aveva messa al suo ritorno dal congresso di Fisica di Belfast, la settimana precedente, e prese il libretto di traveler’s checks della Thomas Cook & Sons. Era ben fornito, perché allora aveva creduto di dover anticipare l’importo del biglietto dell’aereo, che gli sarebbe poi stato rimborsato in un secondo tempo; invece i biglietti gli erano arrivati a casa, già pagati. Infilò nella valigia le cartellette e il passaporto, che aveva i visti ancora validi. Nient’altro. Poi, con la giacca accuratamente ripiegata sul braccio e la valigetta stretta in mano, scese le scale e si diresse verso la banchina. Neanche un minuto dopo, due studenti, sudati e ansanti, tempestavano di colpi la porta della sua stanza.

Quando si fu allontanato dal campus , il vento ormai libero, che soffiava senza sosta, gli asciugò sul corpo ogni goccia di umidità. Dapprima Arnie non ci fece caso, ma, in Dizengoff Road, passando davanti ai caffè, si accorse di avere la lingua arida ed entrò nel locale più vicino. Era il Casit , un ritrovo da bohemien. Nessuno, tra la folla variopinta, gli prestò attenzione quando sedette a un tavolino per bere una bibita.

Fu proprio lì che la catena dei suoi pensieri gli si svolse davanti in tutta la sua lunghezza, permettendogli di prendere una decisione liberamente, senza essere costretto da alcuna influenza esterna e senza immaginare che si stessero organizzando frenetiche ricerche per ritrovarlo.

Infatti l’ondata di costernazione partita dall’epicentro dell’università andava diffondendosi ovunque. Dapprima si era pensato che Klein fosse rimasto sepolto sotto le macerie ammassate dall’esplosione misteriosa, ma dopo un rapido lavoro di scavo l’idea era stata abbandonata. Poi era risultato evidente che doveva essersi fermato in camera sua, dove si erano ritrovati il vestito sporco e macchie di sangue. Non si sapeva più che cosa pensare: era forse ferito e vagava in preda allo choc? Era stato rapito? Le ricerche si allargarono, anche se, naturalmente, non sfiorarono mai il caffè Casit…

All’interno del Casit , intanto, Arnie si alzava dal suo tavolino, contava accuratamente il denaro per pagare la bibita, e usciva.

Ancora una volta lo assisté la fortuna. Vide un tassì che aveva appena accompagnato un cliente al caffè accanto, un locale molto elegante, e ci si infilò mentre la portiera era ancora aperta.

— All’aeroporto di Lydda — disse. E ascoltò pazientemente, mentre l’autista gli spiegava che stava per iniziare il suo turno di riposo, che aveva bisogno di altra benzina, che il tempo non prometteva niente di buono e via dicendo… Comunque, Arnie non perse tempo, perché, una volta presa la decisione, aveva capito che, agendo rapidamente, avrebbe evitato una quantità di cose spiacevoli.

Mentre imboccavano la strada per Gerusalemme, incrociarono due auto della polizia lanciate a velocità pazzesca nella direzione opposta.

2

La hostess dovette toccargli il braccio con discrezione per attrarre la sua attenzione.

— Signore, prego, la cintura. Tra pochi minuti si atterra.

— Sì, certo — disse Arnie. Solo ora si accorgeva che le scritte con l’invito ad allacciare la cintura di sicurezza e a non fumare erano accese.

Il tempo era trascorso con rapidità incredibile, per lui. Ricordava vagamente che gli era stato servito il pranzo, anche se non rammentava più che cosa avesse mangiato. Dopo il decollo dall’aeroporto di Lydda, era sprofondato in nuovi calcoli, prendendo l’avvio da quell’ultimo esperimento d’importanza vitale. E il tempo era volato.

Con maestosa lentezza, il grosso reattore 707 si inclinò su un’ala in una superba virata, e la luna si spostò come un faro nel cielo. Le nubi sottostanti si illuminarono, formando un paesaggio solido e tuttavia irreale. L’aereo perse quota, volò per un poco sopra lo strato di nuvole, poi ci si tuffò dentro. Le gocce di pioggia rigavano l’esterno dei finestrini formando rigagnoli capricciosi. La Danimarca umida e scura aspettava, là sotto. Arnie vide che il suo taccuino, aperto a una pagina piena di equazioni buttate giù frettolosamente, era posato sul tavolino davanti a lui. Lo infilò nel taschino della giacca e ripiegò il piano di legno. Alcuni punti luminosi apparvero all’improvviso attraverso la pioggia e si scorsero le acque scure dell’Øresund. Un attimo dopo, apparve la pista e l’aereo atterrò nell’aeroporto di Kastrup.

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