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Harry Harrison: Le stelle nelle mani

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Harry Harrison Le stelle nelle mani

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Esiste oggi, per uno scienziato, la possibilità di controllare l’uso delle sue scoperte? L’uomo che scompare dal suo laboratorio di Tel Aviv all’inizio di questo romanzo, non si fa molte illusioni al riguardo. Tenta ugualmente, con uno dei paesi più pacifici e democratici che l’Europa conosca: la piccola Danimarca. E subito tutti i servizi segreti delle grandi potenze sono in allarme. La quieta Copenhagen si trova da un giorno all’altro nell’occhio del ciclone. Ciò che le spie, gli agenti, gli informatori riescono a ricostruire non è molto e non ha molto senso: un’esplosione, una nave danneggiata in porto, un certo numero di alte personalità danesi ferite. Non si vede bene quale nesso ci sia tra questo fiasco e le stelle. Eppure, sott’acqua, si sta preparando qualcosa di fantastico.

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— Mi hanno ordinato di consegnarvi questo, signore. L’altro apparecchio è fuori, sulla banchina.

— Grazie, sergente. Mettetelo qui, che ci penso io.

La porta che dava nello scomparto riservato all’elettricista si aprì e Arnie guardò fuori.

— Potrei dirvi due parole, capitano? — chiese.

— Aspettatemi su, sul ponte — disse questi, rivolto al sergente: e rimase in silenzio fino a che l’uomo non fu scomparso su per la scala. — Che c’è?

— Ci occorre personale qualificato. Avete a bordo qualcuno capace di saldare, di fare un buon lavoro? Ci vuol troppo tempo per chiedere aiuto a terra. Si tratta di cosa che ha un interesse nazionale — aggiunse vedendo che il capitano se ne stava in silenzio.

— Sì, me ne rendo perfettamente conto. Il ministro del commercio riceverà un mio rapporto completo su ciò. Ci sarebbe Jens; era saldatore nel cantiere navale. Ve lo mando subito. — Se ne andò, sprizzando disgusto da tutti i pori.

Jens era il gigante coi baffi che aveva aiutato a scaricare gli apparecchi. Comparve portando i pesanti serbatoi di un saldatore a gas, come se fossero giocattoli, e sorridendo con aria innocente.

— Adesso diamo un’occhiata alla scatola misteriosa, eh? Niente segreti per Jens; vede tutto e non dice niente. Affari grossi, misteriosi e segreti… Esercito, marina… perfino un rappresentante dell’Istituto Nils Bohr, come il professor Rasmussen! — I due uomini guardarono il gigante, perplessi. L’altro ammiccò e lasciò andare tubi e bombole sul ponte.

— Forse sarebbe meglio mettersi in contatto… — arrischiò Arnie. Ma fu interrotto da una risata olimpica di Jens.

— Non preoccupatevi! Jens osserva tutto, e acqua in bocca. È stato nell’esercito, in Groenlandia… in cantiere, nel Sud America. E ha visto alla televisione il professore, qui, che ritirava il Premio Nobel. Signori, niente paura, sono anch’io un buon danese, anche se sono nato nello Jutland, cosa che qualche schifoso zelandese a volte mi rinfaccia. E ho perfino il Dannebrog tatuato sul petto. Volete vederlo?

Senza neanche dare la possibilità di rispondere, si aprì giacca e camicia per mostrare la bandiera rossa con la croce bianca di Danimarca che faceva capolino tra i peli del petto.

— Va bene — disse Arnie, stringendosi nelle spalle. — Suppongo che non abbiamo altra scelta. Voglio sperare che non riferirete ciò che vedrete qui…

— Se anche i miei torturatori mi strappassero tutte le unghie delle mani e dei piedi… io riderei e gli sputerei in faccia, senza dire una sola parola.

— Sì, ne sono sicuro. Venite qui. — Si tirarono in disparte, mentre il gigante trascinava dentro la sua roba. — Si tratta del collegamento con lo scafo — disse Arnie. — Non è sufficiente. Il segnale non passa. Dobbiamo saldarci la guida d’onda.

Jens annuiva mentre gli spiegavano che cosa doveva fare, e subito il suo saldatore si svegliò col rumore caratteristico. Quell’uomo sapeva il fatto suo; il capitano aveva ragione. Dopo aver rimosso la guida d’onda, spazzolò di nuovo la superficie e la pulì con un solvente. Soltanto allora riattaccò con i morsetti il dispositivo di ottone e applicò un robusto cordone di saldatura per tutta la sua lunghezza, canticchiando allegramente tra sé mentre lavorava.

— Avete delle radio molto strane, qui — commentò, lanciando una rapida occhiata alle apparecchiature. — Ma naturalmente non si tratta di radio. Fin lì ci arrivo anch’io. Mi sono interessato un po’ di radiotecnica in Indonesia. La fisica è una cosa complicata.

— Vi ha mai detto nessuno che parlate troppo? — domandò Ove.

— A volte, ma non me l’hanno mai ripetuto. — Serrò un pugno pieno di cicatrici e grosso quanto un pallone da football. Poi rise. — Parlo molto, ma dico poco. E solo agli amici. — Raccolse i suoi arnesi e si avviò alla porta. — È stato un piacere chiacchierare con voi, signori. Non mancate di chiamarmi, quando vi occorre qualcosa. — E se ne andò.

— Un tipo interessante — disse Arnie. — Credi che parlerà a qualcuno di quanto ha visto?

— Speriamo di no. Credo di no. Comunque ne parlerò a Skou, nel caso non dovesse tener la lingua a posto.

— Hai preso la sua malattia!

— Può darsi. Ma se stanotte tutto andrà secondo i nostri piani, avremo in mano qualcosa che ci conviene senz’altro tenere segreto.

— Il segnale è buono, ora — disse Arnie. Tolse la corrente, e si appoggiò alla parete, stiracchiandosi. — Per ora non possiamo fare altro. Che accadrà, poi?

Ove guardò il suo orologio. — Sono le sei, e ho fame. Hanno predisposto tutto perché noi si mangi a bordo.

— Il capitano ne sarà felice. Pesce bollito, patate bollite e bevande analcoliche, suppongo… Dovremo fare dei turni. Perché non mangi tu per primo? Io non ho molto appetito.

— Dopo la tua dettagliata descrizione, non ho più appetito neanch’io. Comunque mi offro volontario, poiché l’idea è stata mia! Non arriverà nessuno prima delle undici, e quindi avremo tutto il tempo di prepararci.

Arnie trafficò con le apparecchiature e calcolò l’intensità del campo relativa al massimo dell’energia erogata; così il tempo passò in fretta, e quando Ove chiamò, aprì la porta.

— Niente di quanto ci aspettavamo — dichiarò. — Arrosto di maiale con cavoli rossi; pranzo molto sostanzioso e di una cordialità marinara! Se tu non soffri di pregiudizi riguardo a certi alimenti dall’ultima volta che ci siamo incontrati…

— No. L’ebraismo moderno è più una forma mentale e un’eredità culturale, che una religione. Però devo riconoscere che è più facile trovare polli che maiali, a Tel Aviv. Ho una gran voglia di gustare il pranzo.

Poco prima delle undici, il telefono da campo squillò con perentorietà tutta militare. Ove rispose.

— Qui parla Skou. Gli osservatori stanno radunandosi e desiderano sapere quando comincerà l’esperimento.

— Subito. Ora vengo. — Riappese il ricevitore e si rivolse ad Arnie. — Pronto?

— Prontissimo. È meglio che ci stia tu, all’altro capo del filo, così ci manterremo in contatto. Tienimi costantemente informato.

— Sai bene che lo farò. E tutto funzionerà a meraviglia, ne sono certo.

— Speriamo. Faremmo la figura degli stupidi, se non funzionasse.

— Le prove in laboratorio…

— Non fanno testo. Ora invece stiamo collaudando. Dimmi quando devo cominciare.

Ove seguì il cavo del telefono che attraversava la nave, e quando aprì la porta esterna fu assalito da un turbine di neve finissima, portata da un vento tagliente che lo costrinse ad abbottonare la giacca e a sollevare il bavero, per ripararsi meglio. Dall’estremità della passerella vedeva il gruppo di figure scure addossate al muro posteriore della banchina. Scese, e trovò Skou ad aspettarlo.

— Se siete pronti, loro sarebbero lieti di cominciare. L’ammiraglio Sander-Lange ha settant’anni, e ci sono anche due generali non molto più giovani di lui.

— Il primo ministro?

— Ha deciso all’ultimo minuto di non venire. Ma c’è un suo rappresentante. E ci sono anche quelli dell’aeronautica. Insomma, tutte le persone comprese nell’elenco.

— Se mi portate il telefono, dirò loro due parole. Poi possiamo iniziare.

— Desidererei alcune spiegazioni — disse l’ammiraglio. Nella voce del vecchio c’era una forte eco di comando.

— Sarò lieto di darvele, signore. Ciò che ci proponiamo di fare è dimostrare l’effetto Daleth.

— Daleth? — domandò un generale.

— La quarta lettera dell’alfabeto ebraico. Il simbolo che il professor Klein ha assegnato al fattore dell’equazione che ha condotto alla scoperta.

— Quale scoperta? — fece qualcuno, perplesso.

Ove sorrise. I suoi lineamenti si intravedevano appena nella luce della lampada schermata dalla neve.

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