— Mi hanno ordinato di consegnarvi questo, signore. L’altro apparecchio è fuori, sulla banchina.
— Grazie, sergente. Mettetelo qui, che ci penso io.
La porta che dava nello scomparto riservato all’elettricista si aprì e Arnie guardò fuori.
— Potrei dirvi due parole, capitano? — chiese.
— Aspettatemi su, sul ponte — disse questi, rivolto al sergente: e rimase in silenzio fino a che l’uomo non fu scomparso su per la scala. — Che c’è?
— Ci occorre personale qualificato. Avete a bordo qualcuno capace di saldare, di fare un buon lavoro? Ci vuol troppo tempo per chiedere aiuto a terra. Si tratta di cosa che ha un interesse nazionale — aggiunse vedendo che il capitano se ne stava in silenzio.
— Sì, me ne rendo perfettamente conto. Il ministro del commercio riceverà un mio rapporto completo su ciò. Ci sarebbe Jens; era saldatore nel cantiere navale. Ve lo mando subito. — Se ne andò, sprizzando disgusto da tutti i pori.
Jens era il gigante coi baffi che aveva aiutato a scaricare gli apparecchi. Comparve portando i pesanti serbatoi di un saldatore a gas, come se fossero giocattoli, e sorridendo con aria innocente.
— Adesso diamo un’occhiata alla scatola misteriosa, eh? Niente segreti per Jens; vede tutto e non dice niente. Affari grossi, misteriosi e segreti… Esercito, marina… perfino un rappresentante dell’Istituto Nils Bohr, come il professor Rasmussen! — I due uomini guardarono il gigante, perplessi. L’altro ammiccò e lasciò andare tubi e bombole sul ponte.
— Forse sarebbe meglio mettersi in contatto… — arrischiò Arnie. Ma fu interrotto da una risata olimpica di Jens.
— Non preoccupatevi! Jens osserva tutto, e acqua in bocca. È stato nell’esercito, in Groenlandia… in cantiere, nel Sud America. E ha visto alla televisione il professore, qui, che ritirava il Premio Nobel. Signori, niente paura, sono anch’io un buon danese, anche se sono nato nello Jutland, cosa che qualche schifoso zelandese a volte mi rinfaccia. E ho perfino il Dannebrog tatuato sul petto. Volete vederlo?
Senza neanche dare la possibilità di rispondere, si aprì giacca e camicia per mostrare la bandiera rossa con la croce bianca di Danimarca che faceva capolino tra i peli del petto.
— Va bene — disse Arnie, stringendosi nelle spalle. — Suppongo che non abbiamo altra scelta. Voglio sperare che non riferirete ciò che vedrete qui…
— Se anche i miei torturatori mi strappassero tutte le unghie delle mani e dei piedi… io riderei e gli sputerei in faccia, senza dire una sola parola.
— Sì, ne sono sicuro. Venite qui. — Si tirarono in disparte, mentre il gigante trascinava dentro la sua roba. — Si tratta del collegamento con lo scafo — disse Arnie. — Non è sufficiente. Il segnale non passa. Dobbiamo saldarci la guida d’onda.
Jens annuiva mentre gli spiegavano che cosa doveva fare, e subito il suo saldatore si svegliò col rumore caratteristico. Quell’uomo sapeva il fatto suo; il capitano aveva ragione. Dopo aver rimosso la guida d’onda, spazzolò di nuovo la superficie e la pulì con un solvente. Soltanto allora riattaccò con i morsetti il dispositivo di ottone e applicò un robusto cordone di saldatura per tutta la sua lunghezza, canticchiando allegramente tra sé mentre lavorava.
— Avete delle radio molto strane, qui — commentò, lanciando una rapida occhiata alle apparecchiature. — Ma naturalmente non si tratta di radio. Fin lì ci arrivo anch’io. Mi sono interessato un po’ di radiotecnica in Indonesia. La fisica è una cosa complicata.
— Vi ha mai detto nessuno che parlate troppo? — domandò Ove.
— A volte, ma non me l’hanno mai ripetuto. — Serrò un pugno pieno di cicatrici e grosso quanto un pallone da football. Poi rise. — Parlo molto, ma dico poco. E solo agli amici. — Raccolse i suoi arnesi e si avviò alla porta. — È stato un piacere chiacchierare con voi, signori. Non mancate di chiamarmi, quando vi occorre qualcosa. — E se ne andò.
— Un tipo interessante — disse Arnie. — Credi che parlerà a qualcuno di quanto ha visto?
— Speriamo di no. Credo di no. Comunque ne parlerò a Skou, nel caso non dovesse tener la lingua a posto.
— Hai preso la sua malattia!
— Può darsi. Ma se stanotte tutto andrà secondo i nostri piani, avremo in mano qualcosa che ci conviene senz’altro tenere segreto.
— Il segnale è buono, ora — disse Arnie. Tolse la corrente, e si appoggiò alla parete, stiracchiandosi. — Per ora non possiamo fare altro. Che accadrà, poi?
Ove guardò il suo orologio. — Sono le sei, e ho fame. Hanno predisposto tutto perché noi si mangi a bordo.
— Il capitano ne sarà felice. Pesce bollito, patate bollite e bevande analcoliche, suppongo… Dovremo fare dei turni. Perché non mangi tu per primo? Io non ho molto appetito.
— Dopo la tua dettagliata descrizione, non ho più appetito neanch’io. Comunque mi offro volontario, poiché l’idea è stata mia! Non arriverà nessuno prima delle undici, e quindi avremo tutto il tempo di prepararci.
Arnie trafficò con le apparecchiature e calcolò l’intensità del campo relativa al massimo dell’energia erogata; così il tempo passò in fretta, e quando Ove chiamò, aprì la porta.
— Niente di quanto ci aspettavamo — dichiarò. — Arrosto di maiale con cavoli rossi; pranzo molto sostanzioso e di una cordialità marinara! Se tu non soffri di pregiudizi riguardo a certi alimenti dall’ultima volta che ci siamo incontrati…
— No. L’ebraismo moderno è più una forma mentale e un’eredità culturale, che una religione. Però devo riconoscere che è più facile trovare polli che maiali, a Tel Aviv. Ho una gran voglia di gustare il pranzo.
Poco prima delle undici, il telefono da campo squillò con perentorietà tutta militare. Ove rispose.
— Qui parla Skou. Gli osservatori stanno radunandosi e desiderano sapere quando comincerà l’esperimento.
— Subito. Ora vengo. — Riappese il ricevitore e si rivolse ad Arnie. — Pronto?
— Prontissimo. È meglio che ci stia tu, all’altro capo del filo, così ci manterremo in contatto. Tienimi costantemente informato.
— Sai bene che lo farò. E tutto funzionerà a meraviglia, ne sono certo.
— Speriamo. Faremmo la figura degli stupidi, se non funzionasse.
— Le prove in laboratorio…
— Non fanno testo. Ora invece stiamo collaudando. Dimmi quando devo cominciare.
Ove seguì il cavo del telefono che attraversava la nave, e quando aprì la porta esterna fu assalito da un turbine di neve finissima, portata da un vento tagliente che lo costrinse ad abbottonare la giacca e a sollevare il bavero, per ripararsi meglio. Dall’estremità della passerella vedeva il gruppo di figure scure addossate al muro posteriore della banchina. Scese, e trovò Skou ad aspettarlo.
— Se siete pronti, loro sarebbero lieti di cominciare. L’ammiraglio Sander-Lange ha settant’anni, e ci sono anche due generali non molto più giovani di lui.
— Il primo ministro?
— Ha deciso all’ultimo minuto di non venire. Ma c’è un suo rappresentante. E ci sono anche quelli dell’aeronautica. Insomma, tutte le persone comprese nell’elenco.
— Se mi portate il telefono, dirò loro due parole. Poi possiamo iniziare.
— Desidererei alcune spiegazioni — disse l’ammiraglio. Nella voce del vecchio c’era una forte eco di comando.
— Sarò lieto di darvele, signore. Ciò che ci proponiamo di fare è dimostrare l’effetto Daleth.
— Daleth? — domandò un generale.
— La quarta lettera dell’alfabeto ebraico. Il simbolo che il professor Klein ha assegnato al fattore dell’equazione che ha condotto alla scoperta.
— Quale scoperta? — fece qualcuno, perplesso.
Ove sorrise. I suoi lineamenti si intravedevano appena nella luce della lampada schermata dalla neve.
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