«Erano il doppio di noi» notò.
«Ma è proprio quel che volevamo, Katie.»
Convenimmo tutti che li avevamo messi alle strette e tornammo di buonumore al campo. Melissa mi prese a braccetto, rallentò; in breve ci trovammo più indietro degli altri. Intuendo qualcosa, deviai dal viale in un boschetto. Mi fermai e mi appoggiai contro un alloro.
«Eri magnifico, mentre facevi a pugni» disse Melissa. A quel punto già ci baciavamo. Dopo alcuni lunghi baci, lei sembrò scaricare su di me tutto il suo peso e io mi lasciai scivolare lungo l’albero, graffiandomi la schiena contro la corteccia. Rimasi disteso in mezzo alle foglie, mezzo sopra di lei, mezzo a fianco, con una gamba fra le sue, in una posizione goffa che però mi faceva pulsare il sangue. Ci baciavamo senza tregua, mugolando. Cercai di infilarle la mano negli slip, ma non arrivavo molto lontano; allora la infilai sotto la camicia e le strinsi un seno. Lei mi mordicchiò il collo; un brivido mi percorse tutto il corpo. Qualcuno con la lanterna passò lungo il viale; per un secondo riuscii a scorgere la spalla di Melissa: cotone spiegazzato, bianco sporco contro la pelle chiara, la curva del seno sollevato… e di nuovo baci, con quell’immagine ben chiara nella mente.
Melissa si ritrasse. «Ohhh» sospirò. «Henry, ho detto a papà che sarei tornata subito. Comincerà a cercarmi, se non mi sbrigo a tornare.» Mise il broncio, riuscivo appena a scorgerlo nel buio; feci una risata e lo baciai.
«D’accordo, un’altra volta.» Ero troppo sbronzo per sentirmi deluso, visto che cinque minuti prima non m’aspettavo niente del genere e che era facile riprovarci. Tutto era facile. L’aiutai a rialzarsi, mi tolsi un pezzo di corteccia dalla schiena. E risi.
Accompagnai Melissa al campo; dopo un ultimo e rapido bacio, la lasciai accanto al banco del padre. Tornai nei cespugli a spandere acqua. Lontano, fra gli alberi, vedevo ancora i campi degli sciacalli ondeggiare alla luce dei falò e riuscivo a udire debolmente un gruppo di gente che cantava America the Beautiful. Cantai con loro sottovoce, un accompagnamento perfetto che udivo solo io; e l’antico motivetto mi riempì il cuore.
Tornato sul viale davanti al nostro campo, vidi il vecchio che parlava con due forestieri vestiti con insoliti soprabiti scuri. Il vecchio faceva domande, ma non riuscivo a distinguere le parole. Chiedendomi chi fossero, tornai barcollando al mio giaciglio. Mi sdraiai, con la testa che girava, e fissai i rami neri contro il cielo, ogni ago di pino netto come un tratto d’inchiostro. Pensavo di addormentarmi in un istante, ma c’erano dei rumori: qualcuno schiacciava in continuazione le foglie, crick, crick, crick, crick… nel punto in cui dormiva Steve. Tesi l’orecchio; dopo un poco, udii un respiro affannoso e una fievole, ritmica espirazione, huh, huh, huh… la voce di Kathryn. Ero di nuovo eccitato. Non sarei riuscito ad addormentarmi. Rimasi in ascolto per un minuto, sentendomi strano; mi alzai rumorosamente, stizzito; andai sul davanti del campo, dove il fuoco era ridotto a una massa di braci calde. Mi sedetti a guardarle passare dal grigio all’arancione a ogni alito di vento, eccitato e invidioso e ubriaco e felice.
All’improvviso il vecchio piombò nel campo; sembrava parecchio più sbronzo di me. Il ciuffo di capelli gli ondeggiava intorno alla testa come fumo. Mi vide e si accosciò accanto al fuoco. «Hank» disse, con voce insolitamente eccitata. «Ho appena parlato con due uomini venuti a cercarmi.»
«Ti ho visto insieme a loro. Chi erano?»
Mi guardò; gli occhi iniettati di sangue riflettevano la luce del fuoco. «Hank, quei due vivono a San Diego. E sono venuti fin qui; per meglio dire, fino a sud di Onofre. Hanno parlato con Recovery Simpson e ci hanno seguiti al raduno per parlare con me, non è bello? Le voci girano, capisci, si viene sempre a sapere chi è il più anziano del villaggio…»
«Gli uomini.»
«Sì. Quei due dicono di essere venuti da San Diego a Onofre in treno! »
Restammo a fissarci da sopra il fuoco; alcune fiammelle si alzarono. La luce danzò selvaggiamente nei suoi occhi. «Sono venuti in treno.»
Alcuni giorni dopo il ritorno dal raduno, Pa’ e io ci svegliammo al rumore della pioggia che tamburellava con violenza sul tetto. Mangiammo una pagnotta intera e accendemmo un bel fuoco; ci sedemmo a rammendare, ma la pioggia batteva sul tetto con violenza sempre maggiore e fuori, nel grigiore generale, il grande eucalipto si scorgeva a malapena. Sembrava che l’oceano avesse deciso di avventarsi su di noi e di spazzarci via: le colture più giovani se ne sarebbero andate per prime: piante, paletti, il terriccio stesso.
«Bisognerà stendere i teloni, a quanto pare» disse Pa’.
«Ah, non c’è dubbio» risposi. Alla luce del fuoco tirammo fuori i vestiti da pioggia e girammo nella stanza scura chiacchierando emozionati. Fra il rumore degli scrosci udimmo il debole richiamo della tromba di Rafael, un suono continuo, alto-basso-alto-basso-alto-basso.
Indossammo i vestiti da pioggia e ci precipitammo fuori; nel giro di qualche secondo eravamo inzuppati fradici. Pa’ corse al ponte, diguazzando nelle pozzanghere. Al ponte, alcune persone, rannicchiate sotto ponchos e ombrelli, aspettavano l’arrivo dei teloni impermeabili. Pa’ e io corremmo allo stabilimento per i bagni; il sentiero del fiume era adesso un torrentello che costeggiava il corso d’acqua scuro e spumeggiante. Incontrammo gruppi di tre, quattro persone che avanzavano goffamente sotto il peso di un grosso telone impermeabile. Nel capannone dello stabilimento i Mendez, Mando e Doc Costa, Steve e Kathryn, sollevavano i teloni arrotolati e li mettevano in spalla al primo che capitava. Spronato dalla voce acuta di Kathryn, mi affrettai ad afferrare l’estremità di un rotolo. La ragazza teneva sotto il suo gruppo, non c’era dubbio. E pioveva come se il mondo si trovasse sotto una cascata.
Collaborai a trasportare tre teloni, nei campi coltivati, al di là del ponte. Era il momento di stenderli. Mando e io andammo a un capo del rotolo — plastica arrotolata alla buona, trasparente un tempo, ora opaca per il fango — e ci chinammo per infilarvi sotto le braccia. La pioggia mi si riversò sul fondo schiena e nei calzoni; il poncho mi svolazzava sulle spalle. Gabby e Kristen erano all’altro capo del rotolo; sistemammo il telone al limitare inferiore di una fila di cavoli cappucci. Lo srotolammo poco alla volta, brontolando per lo sforzo e gridandoci istruzioni, risalendo i solchi, nell’acqua fino alla caviglia. Il campo si estendeva in lieve salita davanti a noi, nero e gibboso. Pozze grigie d’acqua rimbalzavano sotto l’assalto furioso della pioggia, dove la pendenza non era giusta. Srotolato tutto il telone, avevamo appena coperto l’ultima fila di cavoli. Nel ritorno, vidi che un certo numero di piante si piegava nei solchi. Un sistema di protezione ben misero, ma non ne avevamo di migliori. Più in basso, figurette ingobbite srotolavano altri teloni di plastica: gli Hamlish, gli Eggloff, Manuel Reyes e il resto dei contadini di Kathryn, più Rafael e Steve. Dietro di loro il fiume ribolliva, diluvio marrone punteggiato di tronchi e di arbusti. Passò una nuvola più sottile; per un attimo la luce cambiò, tanto che ogni cosa rosseggiò tra i veli screziati della pioggia. Poi, con la stessa subitaneità, tornò la luce crepuscolare.
Il vecchio, in fondo a un appezzamento, aiutava a stendere il resto dei teloni e camminava qua e là sotto l’ombrello a spalla, un aggeggio di plastica sorretto sopra la testa da due paletti legati alla schiena. Scoppiai a ridere e sentii in bocca le gocce di pioggia. «Perché non può portare un cappello come tutti?»
«Proprio per questo» disse Mando, con le mani strette sotto le ascelle per scaldarsele. «Vuole essere diverso dagli altri.»
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