Kim Robinson - La Costa dei Barbari

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2047: l’America soffre le conseguenze di un attacco nucleare portato a termine in maniera insospettabile da esecutori di nazioni diverse. Da quasi sessant’anni la più grande potenza mondiale è regredita a un’economia di pura sussistenza, e le comunità vivono un’esistenza separata, ristretta ognuna ai propri confini. Lo stato subisce una quarantena mantenuta con ferrea disciplina dalle squadre di sorveglianza militare giapponese e avallata dalle Nazioni Unite.
È in questo scenario apocalittico che si svolge la vicenda di Henry Fletcher, un giovane della comunità californiana di San Onofre, che per il suo sostentamento dipende interamente dalla pesca e dai raduni di baratto che si svolgono periodicamente nella valle. Dopo l’arrivo di alcuni viaggiatori di San Diego che hanno osato sfidare la vigilanza dei guardiani giapponesi. Henry viene gradualmente a conoscenza del nuovo mondo e delle sue insidie. La sua guida spirituale è Tom, l’uomo più anziano della valle, sopravvissuto alla catastrofe tristemente nota come II Giorno.
La scoperta di un mondo da cui gli americani vengono ingiustamente esclusi, il contatto con gli “stranieri” che vivono a pochi chilometri di distanza, le testimonianze di chi è riuscito a sfuggire alla prigionia in patria trascinano il giovane in un’avventura che segna la fine dell’adolescenza e la transizione verso la maturità, a cui si accompagna la speranza della redenzione per il popolo americano.

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«Cerca di essere serio» replicò Doc. «Parlo di com’era una volta.»

«Non mi piacerebbe» disse Tom. «Ci farebbero saltare in aria di nuovo, probabilmente.»

Ma Leonard ascoltava solo Doc. «Faremmo a gara con i comunisti per ricostruire e sai già chi vincerebbe. Noi, vinceremmo!»

«Già!» disse George. «O forse i francesi…»

Tom si limitò a scuotere la testa. Strappò la fiasca a Steve. «Come medico, Ernest, non dovresti augurare a nessuno disgrazie del genere.»

«Come medico» replicò fieramente Doc «so meglio di tutti cosa ci hanno fatto. Siamo orsi nel pozzo.»

«Andiamocene» mi disse Steve. «Ora inizia la discussione per stabilire se apparteniamo ai russi o ai cinesi.»

«Oppure ai francesi» dissi, scivolando giù dalla panca. Bevvi un ultimo sorso di liquore e il vecchio mi diede un colpo di bastone. «Via di qui, ragazzacci ingrati» gridò. «Incapaci di ascoltare la storia senza riderci sopra.»

«Leggeremo i libri» disse Steve. «Loro non si ubriacano.»

«Ma sentitelo!» esclamò Tom, mentre i suoi amici scoppiavano a ridere. «Io gli ho insegnato a leggere e lui mi dà dell’ubriacone.»

«Non c’è da stupirsi che siano così confusi, con te come maestro» disse Leonard. «Sei sicuro di avergli insegnato a leggere dalla parte giusta?»

Li lasciammo a scambiarsi punzecchiature e ci dirigemmo, malfermi sulle gambe, all’albero arancione, una vecchia quercia gigantesca che reggeva fra i rami lanterne a petrolio rivestite di plastica trasparente color arancione. Era il segno degli sciacalli provenienti dall’Orange County centrale e la nostra banda se ne serviva come punto di ritrovo notturno. Non vedemmo nessuno di Onofre, allora ci sedemmo nell’erba sotto l’albero, ciascuno con il braccio sulle spalle dell’altro, e cominciammo a fare commenti osceni sulla gente che passava. Steve chiamò con un gesto un uomo che vendeva fiasche di liquore e gli diede due monetine da dieci centesimi per una fiasca di tequila. «Chi rende fiasche rotte prende botte» cantilenò l’uomo, continuando per la sua strada. Dall’altra parte dell’albero arancione, un piccolo generatore a pedali ronzava e crepitava; alcuni sciacalli se ne servivano per far funzionare un piccolo forno che nel giro di qualche secondo cuoceva bistecche o patate intere. «Scalda e mangia!» gridavano. «Guardate le miracolose microonde, il super horno! Scalda e mangia!» Bevvi un sorso di tequila; era roba forte, ma ero tanto ubriaco da volermi ubriacare di più. «Sono sbronzo!» dissi a Steve. «Sono borracho. Sono aplastaaa-do. »

«Sei sbronzo di sicuro» disse Steve. «Guarda quell’argento.» Indicò le pesanti collane di una donna degli sciacalli «Guardalo!» Bevve una lunga sorsata. «Hanker, questa gente è ricca. Può fare quasi tutto ciò che più gli piace, non credi? Può andare dove vuole, essere quel che vuole, no? Dobbiamo procurarci un po’ di argento. In un modo o nell’altro, dobbiamo procurarcelo. La vita non è solo faticare per il cibo nello stesso posto un giorno dopo l’altro, Henry. Così vivono gli animali. Ma siamo esseri umani, Hanker, siamo uomini, non dimenticarlo, e Onofre non è abbastanza grande per noi, non possiamo vivere tutta la vita nella valle a ruminare come vacche. Ruminare e aspettare che ci gettino in un forno e ci microondino… uhm… dammene ancora un sorso, Hanker, amico mio. M’è venuta una sete terribile.»

«La mente è il luogo stesso» dichiarai in tono solenne, passandogli la fiasca. Eravamo già pieni, ma quando arrivarono Gabby, Rebel, Kathryn e Kristen, ci mettemmo poco ad aiutarli a svuotare un’altra fiasca. Per un po’ Steve lasciò perdere l’argento e s’impegnò in un bacio; i capelli rossi di Kathryn coprirono lo spettacolo. La banda attaccò di nuovo a suonare: tromba, clarinetto, due sassofoni, batteria, contrabbasso; cantammo seguendo la musica: Waltzing Matilda, Oh, Susannah, I’ve Just Seen a Face. Arrivò Melissa e si sedette accanto a me. Aveva bevuto e fumato. La circondai con il braccio; voltandosi appena, Kathryn mi strizzò l’occhio. Altra gente si radunò intorno all’albero arancione, mentre la banda si scaldava; in poco tempo riuscimmo a vedere solo gambe. Giocammo a indovinare il villaggio di provenienza dei vari gruppi giudicando solo dalle gambe; poi ci mettemmo a ballare intorno all’albero insieme con gli altri.

Molto più tardi ci avviammo verso il nostro campo. Mi sentivo da re. Ci aprimmo la strada fra gente che cantava, restituimmo le fiasche all’uomo dei liquori, barcollammo nel viale reggendoci l’un l’altro e cantando High Hopes fuori tempo con la musica sempre più lontana.

A metà strada andammo a sbattere contro un gruppo che usciva da sotto gli alberi. Finii a gambe levate. « Chinga» dissi, rialzandomi a fatica. Grida e rumori di zuffa. Alcuni finirono a terra, si rialzarono fra mulinare di pugni e urla rabbiose. «Che diavolo…» I due gruppi si separarono e rimasero a fronteggiarsi bellicosamente; alla luce di una lanterna lontana vidi che si trattava della banda di San Clemente: avevano tutti l’identica camicia a strisce rosse e bianche.

«Oh» disse Steve, con voce che trasudava irritazione e disgusto. «Sono loro.»

Uno dei loro caporioni, un tipo maligno colpito da un sasso, avanzò sotto un raggio di luce e ghignò sgradevolmente. Aveva lacerazioni ai lobi delle orecchie, perché portava orecchini anche durante le zuffe; ma l’esperienza non l’aveva reso più accorto: infatti aveva due orecchini d’oro all’orecchio sinistro e due d’argento al destro.

«Ciao, Ghigno di bambola» disse Steve.

«I bambini non dovrebbero venire di notte a Clemente» disse lo sciacallo.

«Cos’è Clemente?» replicò Steve, con indifferenza. «A nord da noi ci sono solo rovine, rovine, rovine.»

«I bambini rischiano di spaventarsi. Rischiano di sentire un suono.» Ghigno di bambola attaccò e gli altri alle sue spalle cominciarono e canticchiare a bocca chiusa un motivo sempre più forte, uhnnnnnn-eeeeeehhhhhhh, che scendeva e saliva: la sirena da noi udita quella notte. Quando smisero, il caporione disse: «Non ci piace gente come voi nella nostra città. La prossima volta non ne uscirete così facilmente…»

Steve si esibì nel suo ghigno selvaggio. «Negli ultimi tempi avete trovato qualche buon cadavere da mangiare?» chiese agli sciacalli, in tono innocente. Subito tutti lo assalirono; Gabby e io fummo costretti ad affiancarlo e a menare forte per impedire che lo circondassero, anche se Steve faceva un buon lavoro contro le loro rotule con i pesanti stivali. Mentre la zuffa divampava a tutto spiano, si mise allegramente a urlare: «Avvoltoi! Mangiacarogne! Frugamacerie! Zopilotes!» Fui costretto a stare all’occhio, perché erano più di noi e sembrava che avessero anelli a ogni dito…

Gli sceriffi ci furono addosso urlando: «Che succede? Fermi… Ehi!» Mi ritrovai per terra un’altra volta, come la maggior parte di noi. Iniziai il laborioso processo di rialzarmi. «Voi ragazzi toglietevi di mezzo» disse uno sceriffo. Era rotondo come una botte, trenta centimetri più alto di Steve; l’aveva afferrato per la camicia. «Vi bandiremo per sempre dai raduni, se dovremo sedare di nuovo una zuffa del genere. Ora filate, prima che vi rompiamo il muso per darvi modo di riflettere.»

Ci unimmo di nuovo alle ragazze… Kristen e Rebel si erano gettate nella mischia, ma le altre erano rimaste in disparte. Ci allontanammo tutti insieme lungo il viale. Dietro di noi, la banda di Clemente iniziò a fare la sirena: uhnnnnnneeeeeeee-uhnnnnnneeeeeeeeeeee-uhnnnnnnnnnnneeeeeeee…

«Maledizione!» disse Steve, stringendo il braccio intorno a Kathryn. «Gliele avremmo suonate anche noi.» Kathryn aveva aggrottato le sopracciglia, con aria disgustata; ma a questa uscita fu costretta a ridere.

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