Jal staccò dalla cintura ingemmata un piccolo apparecchio fornito di minischermo, e con un tocco fece lampeggiare l’indicatore dell’ora. Poi sbuffò. «È già tardi. Fra poco più di un’ora dovrete scendere nel tunnel e tenervi pronti al vostro posto. Ma … va bene: ti concedo pochi minuti con lei».
«No. Voglio stare con Rheba fino al momento di andare in scena».
«Non forzare la mia pazienza».
«O accetti, o non vedrai nessuna Azione».
Jal gli indicò Ilfn, Lheket, gli J/taals e i clepts. «E tu manderesti a morte tutti loro pur di stare pochi minuti con quella kaza-flatch della malasorte?»
«Ti ho già risposto».
L’altro gettò uno sguardo a Dapsl, che distolse il viso, poi osservò i’sNara quasi che si aspettasse un parere da lei. L’illusionista aveva riassunto le sue vere sembianze al termine dell’ultima prova, perché Kirtn non tollerava di aver davanti agli occhi il simulacro di Rheba un secondo più del necessario.
«Potresti prendere il posto di tutti e due, i’sNara?», chiese Jal.
La donna mosse la mano sinistra nel gesto che fra gli Yhelle era come scuotere il capo. «O l’una o l’altro, Signore. Non entrambi. Però potresti chiamare f’lTiri».
Jal parve poco entusiasta. «f’lTiri è solo un Nono Grado. L’Azione dovrà essere perfetta, altrimenti il Loo-chim non me lo perdonerà mai». Si volse a Kirtn. «Sia come chiedi, Peloso. Ma se stanotte non sarai un dio del palcoscenico, l’alba che vedrai sorgere sarà l’ultima della tua vita».
Kirtn rise, una risata aspra e selvaggia che fece alzare in piedi Ilfn e spaventò Lheket. Il fischio della donna Bre’n, si levò ansioso a placare quel suono agghiacciante, e Jal guardò altrove a disagio. Per darsi in contegno l’individuo si aggiustò le maniche della preziosa tunica.
«Ti condurrò io stesso giù nella prigione. Non mi fido a lasciarti solo con una guardia. Camminerai davanti a me a testa china, come usano tutti gli schiavi allorché vengono condotti in cella per punizione».
Kirtn accennò di sì con aria docile, ma l’eco della sua terribile risata vibrava ancora nell’atmosfera. Quando Jal estrasse una pistola lancia-aghi e gli indicò la porta con un cenno dell’arma, uscì e lo precedette lungo il corridoio. Costretto a tenere il capo chino non poté vedere come avrebbe voluto i passaggi che attraversarono, ma fu abbastanza per farsene una mappa mentale. Voleva essere in grado di uscire dalla prigione con la massima rapidità.
L’aria si fece assai più fredda quando scesero una ripida scala a chiocciola stretta fra possenti pareti di pietra. Gli scalini erano concavi e lisci nel centro, a rivelare che per secoli gli schiavi e i loro guardiani s’erano serviti di quel percorso. Sulle pareti c’erano chiazze di umidità, e se il soffitto non era pieno di ragnatele come altrove lo si doveva alle infiltrazioni d’acqua. Giunto in fondo all’interminabile scala Kirtn rabbrividì.
Davanti a lui si aprivano angusti tunnel immersi nella tenebra e nel silenzio, e l’aria puzzava di escrementi e sudiciume, ma ciò che lo colpì subito fu il freddo. Si chiese cosa stesse soffrendo la sua Danzatrice del Fuoco, se lui stesso si sentiva gelare come fra muri di ghiaccio. A testa china rifletté sui molti modi che c’erano per uccidere un uomo, e sulla verità delle torture attraverso le quali lo si poteva condurre a desiderare la morte. Ma come gli sarebbe stato possibile torturare l’uomo che aveva chiuso Rheba a languire in quella tomba gelida, quando l’istinto gli diceva di spaccargli il cranio in un sòl colpo?
Quasi intuendo i suoi pensieri Signore Jal gli stava a distanza di sicurezza. L’unica luce era quella della torcia elettrica che s’era applicato alla cintura, e gliela teneva puntata addosso. Non si fidava certo della sua apparente docilità, così come non si sarebbe fidato neppure della propria madre. Kirtn cercò di non apparire minaccioso per non innervosirlo ancor di più, sicuro che il grilletto del lancia-aghi doveva essere fin troppo sensibile.
Fermandosi in attesa di istruzioni lo vide con la coda dell’occhio, ancor più lontano di quel che aveva supposto. Ma non si aspettava facili occasioni da una volpe come Jal.
«Non ci sono guardie a occuparsi dei detenuti? O li lasciate a crepare in cella senza cibo e assistenza?», sbottò.
«Cammina, muoviti», lo incitò l’uomo. «Alla prossima biforcazione prendi a destra, poi il terzo tunnel sulla sinistra. Alla seconda arcata vedrai una sala circolare. La ragazza è nella cella di destra».
«E tu non vieni?»
«Perché dovrei? Tieni, usa la torcia».
Jal gli lanciò l’oggetto e lui lo prese destramente al volo. Doveva avere la batteria mezza scarica, ma gli occhi dei. Bre’n non avevano bisogno di molta luce per vedere alla perfezione. Subito fischiò un richiamo alto e penetrante, col quale informava Rheba che era lì e chiedeva una risposta, ma sebbene l’eco lo portasse lontano non ne ricevette alcuna. Spaventato fischiò, ma udì soltanto un terribile silenzio.
La sua coscienza si ridusse a quella di un animale disperato e folle e cominciò a correre. La torcia bastava appena a illuminare il tunnel, e solo una parte della sua mente contava gli incroci e le arcate, ma dopo appena mezzo minuto si trovò in una vasta sala.
Faceva ancor più freddo che all’ingresso, e sui possenti blocchi di pietra luccicava qualche ghiacciolo. Il suo tentativo di scacciare l’ansia lo avvicinò ancor più pericolosamente a uno stato mentale che confinava col rez. Emise un fischio stridulo che parve graffiare la tenebra, e tese le orecchie: soltanto il silenzio. Tenendo alta la torcia elettrica scrutò attorno in cerca di qualcosa che somigliasse all’ingresso di una cella.
Finalmente s’accorse che in una nicchia sulla destra c’era una porticina, stretta e costruita in massicce lastre metalliche. Al catenaccio, spesso quanto un braccio, era fissato un lucchetto d’acciaio che pur robusto sembrava più vulnerabile del resto della porta. Le mani del Bre’n si strinsero intorno al lucchetto come due morse, poi puntò un piede sul battente e si inarcò con tutta la forza selvaggia che gli scorreva nelle vene come una droga. Il meccanismo interno del lucchetto cedette con uno schianto, ed egli rotolò a terra. Rialzandosi vide che la pesante porta s’era aperta verso l’interno buio.
Rheba era immobile sul pavimento polveroso, ad occhi chiusi e nuda, ridotta da far pietà.
Chinandosi a toccarlo fischiò ancora il suo nome, ma la ragazza era fredda come la pietra e non dava segni di vita. Le mise una mano fra i capelli cercando di captare la lieve energia che vi stagnava sempre, e come annichilito vide Fssa scivolarne fuori e rotolare inerte al suolo.
Nel fondo della sua mente il rez era pronto a divampare, simile alla lava di un vulcano in attesa di esplodere, una promessa di distruzione incandescente e totale. Ma non ancora, disse una voce dentro di lui. Prima doveva avere la prova che fosse morta.
La sollevò dal suolo e la strinse a sé, abbracciandola forte per trasmetterle il calore e l’energia psicofisica del suo corpo. Con mani esperte premette i punti nevralgici della sue Linee di Potenza, e le inviò un flusso mentale di energia. Fu solo allora che sentì il battito del suo cuore, debole come un respiro. Cominciò a massaggiarla delicatamente.
Il cervello di Rheba era pieno di nebbia, e il ritorno della coscienza fu una fiammella che si accese pian piano in quel nulla dei sensi. Le sue Linee di Potenza lucevano, stimolate da un’energia che proveniva dall’esterno, e questa sensazione la stupì vagamente. Poi la fece gridare di dolore. Con uno scatto s’inarcò, scioccata da quella sofferenza atroce. Un Akhenet più débole sarebbe morto, col sistema nervoso bruciato dalla forza del Bre’n che scorreva più nella mente che nel corpo. Ma ella aveva già sentito quella fiamma arderla una volta, in passato, durante gli ultimi momenti trascorsi su Deva. Anche allora, quando gli scudi d’energia avevano ceduto e i Danzatori del Fuoco erano morti sulle loro postazioni, era stata quella sferzata terribile a scuoterla ed a tenerla viva. Era stato il suo Bre’n a rischiare di ucciderla pur di farla reagire. E come allora ella sopravvisse e riemerse dalla profondità del coma.
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