«Fssa …», mormorò debolmente. «Sono cieca?»
«No, Danzatrice del Fuoco. Il luogo in cui ci hanno rinchiusi è un antichissimo carcere sotterraneo, e non c’è luce».
«Il buio e il freddo mi spaventano. Io sono abituata ad estrarre energia dalla luce, e dal calore dell’aria», disse lei sottovoce.
Avrebbe potuto illuminare quella prigione. Sarebbe stata la cosa più facile del mondo, se fosse riuscita ad usare l’energia del suo stesso corpo. Ma sentiva di averne a malapena per restare in vita. Comunque non era particolarmente desiderosa di osservare le caratteristiche di quella tomba, rifletté per consolarsi. Le catene tintinnarono quando cambiò posizione nel tentativo di scoprire, se riusciva a muovere qualche muscolo. Ma subito un forte tremito la scosse lungamente, innaturale e convulsivo. Pian piano tornò all’immobilità assoluta e al silenzio. Tese le orecchie e non udì altro che il proprio respiro.
Dieci minuti più tardi chiamò: «Fssa?»
Non ci fu risposta.
«Fssa … Hai freddo anche tu?»
Soltanto silenzio. Le catene le strisciarono sul volto, quando alzò le mani per toccarsi la testa in cerca dello Fssireeme. Non lo trovò. D’improvviso comprese che col solo sforzo di parlarle il serpentello aveva oltrepassato il limite delle proprie possibilità fisiologiche. L’esigua massa corporea non gli consentiva di trattenere il calore come un essere umano. Pur senza essere un’esperta in fisica, Rheba fu certa che il piccolo alieno non poteva regolare la sua temperatura interna come gli animali a sangue caldo: condizioni climatiche di quel genere avrebbero finito per ucciderlo.
«Fssa, rispondi. Dove sei?»
Il suo grido risuonò fra le gelide pareti di pietra. Nonostante la terribile spossatezza creò allora una debole sfera di luce fredda. Era qualcosa che perfino un Danzatore del Fuoco di pochi anni avrebbe saputo fare facilmente, eppure lo sforzo bastò per farla accasciare.
La cella che poté vedere a quel modo non era certo vasta: appena quattro passi di lato. Ciò malgrado le occorsero due minuti buoni prima di individuare il serpente. Era a un metro dietro la sua nuca, arrotolato a spirale, immobile e più scuro e sottile di quanto lo avesse mai visto. Sembrava un pezzo di spago nero abbandonato nella polvere.
«Fssa, che cos’hai?»
Vedendo che non dava cenni di vita lo chiamò ancora, disperata, finché la sua voce si ruppe in un singhiozzo che trasse una fredda eco dalle pareti corrose. Allora mandò lo sferoide di luce ad aleggiare sopra di lui. Appena lo ebbe posto a contatto del corpiciattolo mutò l’energia luminosa in calore. Per riuscirci dovette usare ogni sua forza, ma non poteva sopportare l’idea che quella creatura stesse morendo davanti a lei. Si rifiutò di pensare che fosse già troppo tardi, e dimenticò ogni altra cosa per riscaldarlo.
Il piccolo globo emanava una radiazione infrarossa, che ella percepiva come una semplice presenza collegata alle sue linee di Akhenet. La concentrò sul serpentello, attenta a non lasciarla disperdere inutilmente nell’aria. Per un attimo temette il rischio di bruciargli l’epidermide, poi rammentò quant’era stata innocua per lui la scarica che aveva strinato la peluria sull’avambraccio di Kirtn.
Occorse più di un’ora prima che nel serpente apparisse un segno di ripresa. Il suo colore mutò dal nero al bruno, poi le scagliette presero a divenire rossicce qua e là, e infine il suo dorso rifletté di nuovo toni dorati e argentei.
«Stai meglio, Fssa?»
La testa affusolata si sollevò dalle spire, e gli occhi di rubino si aprirono a guardarla. La sua circonferenza s’era allargata quasi del doppio. Di colpo emise un collarino di spie gialle, eccitato. «Hai trovato il modo di dare fuoco alla pietra?»
«No, purtroppo», sospirò lei.
«Allora da dove viene questo calore?»
«Da me».
«Tu stai … sacrificando la tua energia per riscaldarmi?», strillò Fssa inorridito. Subito strisciò via per allontanarsi dal globo di luce infrarossa, ma questo lo seguì in ogni suo spostamento. «Nooo! Non devi! Non devi!»
La voce stridula del serpente le graffiò i nervi. «Vuoi smetterla, sciocco rettile? Più ti muovi, e più fatico a darti calore».
Fssa si arrestò e per un poco rimase zitto, con la testa ripiegata sotto le sue spire come se volesse nascondersi a lei ed a se stesso. Poi mandò un fischio dolente: «Non sprecare la tua forza per me, Danzatrice del Fuoco. Io non me lo merito».
Troppo stanca per parlare, Rheba lasciò che lo sferoide rispondesse per lei continuando a emanare calore.
«Tu non capisci, non sai», gemette Fssa. «Io non sono quello che credi».
«Io credo che tu sia bello».
Il serpente mandò un involontario fischio di compiacimento in linguaggio Bre’n, ma lo sfumò subito in una nota d’amarezza. «No, Danzatrice del Fuoco. Io non sono una cosa bella. Io sono … un parassita!»
La ragazza dovette rimuginare stancamente su quella frase, prima di cominciare a capirla. «Ma che dici? Tu non bevi il sangue né mangi la carne di creature viventi. Prendi solo ciò che gli altri ti danno spontaneamente. Il freddo ti fa sragionare, mio povero Fssa».
«Né sangue né carne, certo … ma l’energia corporea sì».
Soltanto la lingua Bre’n poteva esprimere con tanta emotività la vergogna e il disgusto che lo Fssireeme rivelava d’avere per sé stesso. E solo nello stesso linguaggio era possibile rispondergli.
Rheba inspirò lentamente aria, e ripeté: «Non hai mai preso nulla che non ti fosse dato». Il suo fischio fu ricco di toni consolatori.
«Tu non mi conosci bene. Io … ti ho derubata », si accusò lamentosamente l’altro.
«Ma via, Fssa …»
«No, ascoltami. Dopo quel che ti dirò, la smetterai di consumarti per un parassita inutile come me. Sul pianeta natale degli Fssireeme, prima che venissero gli uomini a mutare la nostra razza, dividevamo il tempo in due stagioni di vita. C’erano i mesi della Luce, e c’erano i mesi del Buio. Durante la Luce d’energia era abbastanza perché tutti potessero nutrirsene a sazietà. Ma poi veniva il Buio, e questo era assai più lungo e interminabile, mesi e mesi senza energia da assorbire. E per vivere noi Fssireeme abbiamo bisogno di energia. Così il nostro corpo … può assorbirla … da altri animali».
Dopo una breve pausa continuò: «È facile. Costretti a cacciare durante il Buio, i miei progenitori proiettavano un’illusione sonora per attirare la preda. Appena si accostava abbastanza le saltavano addosso e risucchiavano la sua energia … e continuavano a nutrirsene finché moriva. Poi cercavano un’altra preda, e un’altra, finché non tornava la Luce, volando nei mari d’aria di Ssimmi. Questo accadeva un’eternità di tempo fa, ma la nostra natura e i nostri bisogni sono gli stessi. Come credi che mi sia nutrito fin’ora? Io sono un parassita … e i tuoi capelli sono pieni di energia libera!»
Rheba cercò qualcosa da rispondergli ma non seppe trovare le parole. Compativa l’incapacità del serpente di mantenere il calore del suo corpo come i mammiferi, e immaginava che una creatura intelligente provasse vergogna a fondare la propria esistenza sul parassitismo. Ma non le pareva che Fssa si sarebbe lasciato consolare facilmente. Provò a muoversi per raggiungerlo e subito dovette rinunciarvi, impedita dalle catene. Sentiva che era importante rassicurarlo sui suoi sentimenti. I pensieri le si confondevano nella testa fino a diventare un groviglio. Tutto si sfumava nel freddo e nel torpore.
«Sei bello, Fssa», sussurrò.
Il serpente mandò una specie di vagito. «Risparmia la tua forza. Lasciami morire».
«Non dirlo neppure per scherzo».
Nella mezz’ora seguente Rheba si limitò a stare distesa al buio, concentrandosi sulla volontà di rimanere viva. Si girò su un fianco e tese ancora le catene per raggiungere Fssa, ma non ci riuscì. Il serpente la osservò un poco, quindi prese a trascinarsi lontano da lei come per sfuggire al globo d’energia che invece lo seguiva imperterrito.
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