— Kaput — disse Gaspard. — Credete che i cervelli rifiuteranno veramente l’offerta di Flaxman?
— Sentite — disse con voce stridente la ragazza — la loro prima risposta è sempre no. Poi cominciano a esitare e a meditare, e… — Si interruppe. — Vi avevo detto che non volevo parlare della Saggezza, signor Gnuit.
— Chiamatemi Gaspard — disse lui. — E voi come vi chiamate di nome, fra parentesi? — E poiché lei non rispose, disse, con un sospiro. — Va bene, vi chiamerò Nurse, e penserò a voi come al Vescovo di Ferro.
Un automatassì con i fari rossi e azzurri e una cupola che emanava un chiarore giallo avanzò, strisciando come un gigantesco scarafaggio tropicale. Gaspard fischiò e quello si avvicinò stancamente al marciapiedi.
La sommità e il fianco del carapace d’argento opaco si sollevarono ; la coppia salì e la portiera si richiuse su di loro. Gaspard diede l’indirizzo di un mangiatorio e l’automatassì si avviò, seguendo ciecamente una linea magnetizzata sul fondo gommato.
— Non andiamo alla Parola? — chiese la ragazza. — Credevo che tutti gli scrittori mangiassero alla Parola.
Gaspard annuì. — Ma ormai io sono classificato come crumiro. La Parola è in pratica il quartier generale del sindacato.
— Essere classificato come crumiro è diverso da esserlo in realtà? — si informò la ragazza. — Oh, scusatemi. Non ho opinioni in proposito, in nessun senso, io non mi occupo di sindacati.
— Fa lo stesso: il nostro lavoro è molto simile — le disse Gaspard. — Io sono… be’, ero… un meccanico dei mulini-a-parole. Mi occupavo di un gigante che produceva una prosa molto più elegante ed eccitante di quella che può scrivere qualunque uomo, eppure dovevo trattarlo come qualsiasi altra macchina nonrobotica… questo automatassì, diciamo. Mentre voi avete una stanza piena di geni in scatola e dovete trattarli come bambini. Abbiamo qualcosa in comune, Nurse.
— Smettetela di cercare di addolcirmi per poi farmi qualche proposta — insorse la ragazza. — Non ho mai saputo che gli scrittori fossero i meccanici dei mulini-a-parole.
— Non lo sono — ammise Gaspard, — ma per lo meno io ero più meccanico di tutti gli scrittori che conoscevo. Osservavo sempre i veri meccanici quando si occupavano della manutenzione del mio mulino e una volta, quando ebbero tolto la piastra posteriore, cercai di seguire qualche circuito. La cosa più importante è che ero entusiasta dei mulini-a-parole. Io amavo quelle macchine e le cose che sfornavano. Essere con loro era come essere in grado di guardare una coltura in vitro mentre produce la medicina che ci farà star bene.
— Temo di non poter condividere il vostro entusiasmo — disse la ragazza. — Vedete, io non leggo la produzione dei mulini, leggo solo i vecchi libri che i cervelli scelgono per me.
— E come riuscite a sopportarli? — chiese Gaspard.
— Oh, ci riesco — rispose lei. — È necessario, se devo cercare di seguire a meno di dieci anni luce quei marmocchi.
— Sì, ma è divertente?
— Che cosa significa, divertente? — La ragazza batté un piede. — Mio Dio, ma questo tassi non va avanti!
— Adesso funziona solo con l’energia delle sue batterie — le ricordò Gaspard. — Vedete le luci, là avanti? Fra un isolato ritroveremo la corrente. Sarebbe bello se potessero applicare l’antigravità ai tassi… potremmo arrivare in volo alla nostra destinazione.
— E perché non possono? — chiese la ragazza, come se fosse colpa di Gaspard.
— È questione di dimensioni — rispose lui. — Zane Gort me l’ha spiegato, qualche giorno fa. I campi antigravità sono tutti campi dalla portata limitata, come la forza di attrazione intorno a un nucleo atomico. Possono muovere missili minuscoli, ma non astronavi, valigie ma non automatassì. Se fossimo piccoli come topi o anche come gatti…
— I gatti che prendono il tassi non mi eccitano. Zane Gort è un ingegnere?
— No, a meno che non conti il fatto che scrive libri di avventure per gli altri robot… sono zeppi di fisica, credo. Ma come quasi tutti i robot ultimo modello ha un mucchio di hobby che sono quasi seconde professioni. Ecco, si fa fornire nuove informazioni per mezzo di bobine per ventiquattro ore al giorno.
— Vi piacciono i robot vero?
— A voi no? — chiese Gaspard con una improvvisa durezza nella voce.
La ragazza scrollò le spalle.
— Non sono peggiori di certa gente. Mi lasciano fredda, come le lucertole.
— È un paragone pessimo. E del tutto inesatto.
— Non lo è. I robot sono esseri a sangue freddo come le lucertole; non è così? Per lo meno, sono freddi.
— E vorreste che si riscaldassero al punto di ebollizione solo per farvi piacere? A cosa è mai servito, per l’umanità, avere il sangue caldo, se non per fare infuriare la gente e fare scoppiare le guerre?
— Ha provocato anche qualche atto di coraggio e di romanticismo. Sapete, anche voi somigliate molto a un robot, Gaspard. Freddo e meccanico, Scommetto che vi piacerebbe una ragazza che vi scaricasse addosso un po’ di elettricità, o qualsiasi altra cosa facciano i robot, non appena si preme il Pulsante dell’Amore.
— Ma i robot non sono così! Sono tutt’altro che meccanici. Zane Gort…
L’automatassì si fermò davanti a una porta vivacemente illuminata. Uno snello tentacolo dorato uscì ondeggiando dalla porta, agitandosi allegramente come un serpente cui avessero insegnato a ballare lo shimmy. Aiutò a sollevare il carapace, poi toccò lievemente la spalla di Gaspard.
Un paio di labbra modellate come l’arco di Cupido spuntarono all’estremità della morbida, affusolata fune d’oro. Poi sbocciarono aprendosi come un fiore.
— Permettetemi di guidare voi e la signora nel Mangiatorio Interstellare di Engstrand — disse il tentacolo. — La Cucina dello Spazio!
La Cucina di Engstrand non era vuota e fredda come lo spazio interstellare e neppure come la carezza di un robot, e nella lista delle vivande non c’erano lucertole. Eppure, il cibo era piuttosto morboso. Le bevande invece erano abbastanza salutari.
Dopo un po’, la signorina Bishop si lasciò convincere a spiegare che aveva cominciato a interessarsi delle teste d’uovo perché quando era una bambina una zia, che era bambinaia presso il Trust dei Cervelli, l’aveva condotta a visitare la Nursery.
A sua volta Gaspard confidò che fin dall’infanzia aveva desiderato diventare uno scrittore semplicemente perché aveva sempre amato la produzione dei mulini, invece di dedicarsi, come facevano molti autori, alla stereo, alla TV o a lavori di relazioni pubbliche. Cominciò a descrivere esattamente che cosa rendeva tanto meravigliosa la produzione dei mulini (specie di certi mulini), ma alzò un po’ troppo la voce e un vecchio irrequieto, magro come un ragno, che stava seduto al tavolo accanto ne approfittò per intervenire.
— In quanto a questo avete ragione, giovanotto — esclamò il vecchio. — È sempre il mulino-a-parole che conta, non lo scrittore. Io ho letto tutti i libri mulinati dallo Scriba Scribner Uno, qualunque fosse il nome dello scrittore che poi vi appiccicavano. Quella macchina aveva più succo di tutte le altre tre messe insieme. Qualche volta faticavo ad accertarmi che fosse proprio scritto dall’SS Uno, ma ne valeva la pena. Solo l’SS Uno mi lasciava quella meravigliosa sensazione di vuoto, trasformava la mia mente in un caldo deserto buio. Bisogna cercare il mulino a parole adatto, l’ho sempre detto!
— Non saprei, caro — commentò la donna grassoccia, dai capelli bianchi e dalla bocca increspata che gli sedeva accanto. — A me è sempre sembrato che le opere di Heloise Ibsen avessero sempre una certa qualità, indipendentemente dalla macchina che usava.
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