Fritz Leiber
Le argentee teste d’uovo
Gaspard de la Nuit, scrittore a giornata, passò una pelle scamosciata sulla lucente base d’ottone del suo torreggiante mulino-a-parole con lo stesso affetto distratto con cui avrebbe, poco più tardi, accarezzato il fianco liscio di Heloise Ibsen, scrittrice patentata. Automaticamente controllò tutte le migliaia di spie luminose (tutte spente) e la fila di quadranti (tutti a zero) sulla facciata della macchina elettronica alta quanto una casa a due piani. Poi sbadigliò massaggiandosi i muscoli del collo.
Aveva trascorso il suo turno dormicchiando, bevendo caffè, e finendo di leggere I peccatori dei sobborghi del satellite e Ogni uomo è filosofo di se stesso. Un autore non poteva chiedere di meglio per passare una tranquilla notte di lavoro.
Buttò la pelle scamosciata in un cassetto della sua scrivania sgangherata. Si guardò con occhio critico in uno specchietto, si pettinò con le dita i capelli scuri e ondulati, sistemò in pieghe fiammeggianti la sua fluente cravatta di seta nera e abbottonò gli alamari della giacca da casa di velluto nero.
Poi si avvicinò a passo vivace all’orologio e timbrò il cartellino. Il suo sostituto del turno di giorno era già in ritardo di trenta secondi, ma quello era un fatto su cui doveva arrabbiarsi la commissione disciplinare del sindacato, non lui.
Varcata la porta della sala simile a una cattedrale che ospitava la mezza dozzina di mulini-a-parole, grandi come organi, della Editrice Razzi e dell’Editoriale Protone, si fermò per lasciar passare la folla stupefatta dei visitatori mattutini, guidata da Joe la Guardia, un vecchio curvo che era abile quasi come uno scrittore nel dormire sul lavoro. Gaspard era felice di non dover sopportare le domande idiote dei visitatori (“Dove prende le idee che passa al mulino-a-parole, signore?”) e le occhiate sospette ed eccitate (fra le altre cose, il pubblico credeva che tutti gli scrittori fossero maniaci sessuali, il che era un po’ esagerato). Era particolarmente felice di sfuggire alla curiosità di una coppia molto discutibile, un uomo e un ragazzo, vestiti in abiti uguali, tipo padre-e-figlio: l’uomo troppo evidentemente agitato e saputo, il ragazzino piccato e annoiato. Gaspard si augurò che Joe la Guardia fosse abbastanza sveglio da impedire a quest’ultimo di pasticciare con la sua adorata macchina.
Tuttavia, conscio della presenza del pubblico, Gaspard tirò fuori la sua grossa pipa ricurva di schiuma, bionda come il miele, ne sollevò il coperchio di filigrana d’argento e vi premette una presa di tabacco prelevata dalla borsa di foca dalla cerniera d’oro. E si accigliò lievemente, mentre lo faceva. Dover fumare quella mostruosità tedesca era quasi l’unica cosa antipatica nella sua professione di scrittore, oltre ai vestiti un po’ incongrui che era obbligato a portare. Ma gli editori erano perversamente minuziosi quando si trattava di stabilire quelle clausole contrattuali, come lo erano quando si trattava di obbligare uno scrittore a lavorare per l’intero turno, anche se i mulini-a-parole non giravano.
Ma non gli importava un accidente, ricordò a se stesso con un sorriso; presto sarebbe stato uno scrittore patentato, autorizzato a portare una maglietta, a farsi rapare a zero e a fumare sigarette in pubblico. E certamente, come scrittore a giornata, stava molto meglio di un apprendista scrittore, che generalmente era obbligato a portare un costume come una tunica greca, una toga romana, una tonaca da frate o cose del genere. Gaspard aveva conosciuto persino un povero diavolo di scrittore che gli spiritosi sadici del sindacato avevano imbrogliato, inducendolo ad accettare, per contratto, di vestirsi come un babilonese e di portare sempre con sé tre tavolette di pietra, uno stilo e un martello. Anche considerando che il pubblico voleva gli autori circondati da un’atmosfera appropriata, quello era veramente troppo.
Eppure, gli scrittori godevano di una vita così comoda e lussuosa che Gaspard non riusciva a capire perché tanti giornalieri e tanti patentati, in quegli ultimi tempi, si mostrassero così apertamente disgustati del loro lavoro, facendo di nascosto le boccacce agli editori e covando l’illusione di avere un messaggio serio e profondo da rivelare al pubblico. Molti di loro odiavano apertamente i rispettivi mulini-a-parole, il che, per Gaspard, era un po’ peggio di un sacrilegio. Perfino Heloise aveva preso l’abitudine di fare le ore piccole per presenziare alle riunioni segrete dei malcontenti (una cosa di cui Gaspard non voleva neppure sentire parlare) invece di dedicare le ore dopo il suo turno a un adeguato riposo, in preparazione del ritorno a casa di Gaspard.
Il pensiero di Heloise che lo aspettava nel loro nido d’amore accrebbe il cipiglio di Gaspard. In un certo senso, due ore dedicate a tenere attività orizzontali, anche con una ingegnosa scrittrice patentata, gli parevano eccessive, per non dire opprimenti. Un’ora avrebbe dovuto essere sufficiente.
— È uno scrittore, figliolo.
Era naturalmente l’uomo che rispondeva in un sussurro più alto del necessario alla risposta del ragazzo. Ma Gaspard respinse, con una scrollata di spalle, il tono di disprezzo e di disapprovazione di quel sussurro e passò oltre i due visitatori, con un sogghigno. Era colpa sua, si disse, se apparteneva a una professione i cui membri erano considerati maniaci sessuali e, dopotutto, le due ore di battaglia che lo aspettavano erano un compromesso fra l’ora che voleva lui e le tre che avrebbe voluto Heloise.
Il Viale del Lettorato, il viale di New Angeles, California, su cui si allineavano tutte le case editrici del Sistema Solare che parlava inglese, sembrava stranamente deserto quel mattino (era possibile che tutti quelli del turno di giorno stessero dormendo più a lungo del solito?) anche se c’era in giro un buon numero di robot dall’aria straordinariamente dura… uomini di metallo, angolosi, alti due metri e dieci, con un solo occhio, come Polifemo, e minuscoli altoparlanti per conversare con gli umani (di solito preferivano parlare fra loro per contatto diretto da metallo a metallo o per mezzo di una silenziosa radio a onde corte).
Poi il suo umore migliorò quando scorse un robot che conosceva, una creatura massiccia ma snella di acciaio azzurro che spiccava fra i suoi fratelli più goffi come un purosangue fra i ronzini.
— Ehi Zane! — esclamò allegramente. — Che cosa sta succedendo?
— Salve Gaspard — rispose il robot, avvicinandosi e aumentando il volume della voce. — Non lo so. Questi mostri non vogliono parlare con me. Probabilmente sono stati ingaggiati dagli editori. Forse gli Squadristi hanno colpito di nuovo e gli editori cercano di prevenire il tentativo di intralciare alla fonte la distribuzione dei libri.
— Allora non ci riguarda — dichiarò allegramente Gaspard. — Ti hanno tenuto molto occupato in questi giorni, Vecchio Rottame?
— È un lavoro che mi porta via tutto il tempo solo per comprarmi l’energia necessaria per alimentare le mie batterie, Vecchia Pentola di Carne — rispose il robot. — Ma sai che vado pazzo per la corrente alternata.
Gaspard gli sorrise con calore, mentre il robot ronzava piacevolmente. A Gaspard piaceva veramente la compagnia dei robot, anche se quasi tutti gli umani criticavano chi fraternizzava con i nemici (in privato li definivano così) e una volta in una lite da innamorati Heloise Ibsen l’aveva chiamato “sporco amatore di robot!”.
Forse la sua simpatia per i robot era una conseguenza un po’ esagerata del suo affetto per i mulini-a-parole, ma Gaspard non aveva mai cercato di analizzarla. Sapeva soltanto che era attratto dai robot e che detestava tutti i pregiudizi antirobot. Diavolo, si diceva, i robot erano individui divertenti e simpatici, e anche se alla fine avrebbero portato via il mondo ai loro creatori (almeno, a quanto prevedeva la scienza) non vi sarebbe mai stato il problema dei matrimoni misti o altre stupide sciocchezze a turbare i rapporti fra le due razze.
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