L’onda umana colpì, riportando Axxter al mondo reale. Cadde di nuovo sulla sedia quando il bordo del tavolo gli finì nello stomaco. Il tavolo stesso si sollevò, girandosi lungo il proprio asse quando la folla gli arrivò contro. Axxter, senza fiato per il colpo ricevuto, alzò lo sguardo appena in tempo per accorgersi che il tavolo gli stava cadendo addosso.
O quasi. Uno degli spigoli del tavolo, cadendo, ruppe il tessuto della tenda alle sue spalle e vi rimase impigliato, creando uno spazio triangolare con la piattaforma sottostante. Axxter abbandonò la posizione a uovo che aveva assunto per ripararsi, togliendo le mani dalla testa. Poteva sentire i guerrieri spumeggianti di rabbia raspare il tavolo, come se potessero arrivare fino a lui con le loro unghie nere.
GesùCristoporcamerda… quella strana prospettiva soffusa e atemporale l’aveva abbandonato. Muovendosi a carponi, sentì le urla che provenivano dall’altro capo del tavolo. Quei figli di puttana l’avrebbero ammazzato. Se sono fortunato… Una volta messe le mani su di lui, avrebbero trovato un’infinità di metodi ingegnosi per vendicare il loro orgoglio ferito a spese delle sue ossa e del suo sistema nervoso. Avrebbero ideato mille modi per soffocare la rabbia per l’affronto ricevuto davanti ad ambasciatori e tirapiedi delle tribù alleate e a qualche stupido libero professionista come lui.
I colpi che piovevano sul tavolo lo scuotevano violentemente. L’angolo tra lui, la piattaforma e la tenda formava uno stretto tunnel; nessuno in quella folle massa aveva ancora pensato di aggirare il tavolo, strisciare per terra e tirarlo fuori. Restavano forse solo pochi secondi prima che la folla riuscisse a spostare il tavolo e a raggiungerlo.
Una possibilità — quel pensiero, prima confuso nella testa di Axxter, divennne a un tratto chiaro — di salvare la propria vita, o quanto meno il debole tentativo di sfuggire a quella furia che stava per abbattersi su di lui. Se avesse potuto attraversare quel tunnel triangolare, uscire all’aperto a pochi metri di distanza, fare una corsa veloce verso il tavolo dei dignitari e raggiungerlo prima che la folla lo intercettasse e lo afferrasse per il collo… avrebbe abbracciato le ginocchia del Generale Cripplemaker e allora avrebbe potuto fare una dichiarazione davanti a tutta la tribù. E a quel punto sarebbe stato sotto la loro protezione, almeno in parte… Infatti, secondo le regole della tribù, a quel punto non avrebbero potuto ucciderlo, anche se sapeva che ci sarebbero andati il più vicino possibile.
Quella prospettiva e le conseguenze che avrebbe comportato, cioè diventare un oggetto posseduto, non più un uomo, ma una cosa, attraversò i suoi pensieri.
Guardò lungo il tunnel: aveva una perfetta vista del palco. Tutti sembravano essersi uniti all’assalto del tavolo. Quella che sembrava la parte bassa dell’uniforme di Cripplemaker, lucidi pantaloni neri con due strisce rosse, apparve in lontananza davanti a una sedia rovesciata.
Vai! Iniziò a muoversi a carponi e si tagliò il palmo della mano su un bicchiere rotto. Vai, vai, per Dio!
— Ufff… — Il pesante suono dei colpi risuonava lungo il tavolo. — Vieni fuori rottinculo! — Qualcuno si era accorto di lui. — Forza, vieni qui, dannazione!
Axxter raggelò, fissando l’apertura triangolare davanti a sé. E al di là: non vide più il caos dei tavoli e delle sedie, né le gambe del Generale. C’era qualcos’altro: il muro della notte, avvolta in un buio senza fine.
— Vieni fuori, vieni fuori, forza, forza, muoviti… — Una voce abbaiò un comando e il tavolo scricchiolò in risposta, mentre tutti smettevano di colpirlo.
Lo stretto tunnel si allungava e si muoveva, mentre Axxter ne scorreva con lo sguardo la profondità.
Ai bordi del tavolo comparvero delle dita. — Ci siete? No, qua, forza… allontanatevi… bene, adesso tirate…
Il tavolo si rovesciò.
Il Generale Cripplemaker era salito su una sedia del palco per seguire meglio l’operazione. Quel piccolo bastardo di un grafico avrebbe pagato, poteva starne certo. Fargli fare una simile figura… — Allora? — urlò il Generale agli uomini che si stavano lanciando sul tavolo. — L’avete preso?
Il sergente che stava dirigendo le operazioni tirò indietro per le spalle un paio di uomini. Tutti gli altri si allontanarono dal tavolo rovesciato.
— Dov’è? — Il sergente guardò dall’altro lato del tavolo, ma tutto ciò che ebbe in risposta furono alzate di spalle e palmi aperti. — Dove potrebbe essere andato? — Un paio di guerrieri della Folla sollevarono un capo del tavolo dalla piattaforma, come se il grafico avesse potuto essere rimasto schiacciato lì sotto. Il sergente stupito guardò il Generale.
Axxter poteva sentirli bestemmiare e muoversi a passi pesanti sulla piattaforma. Fece un lungo passo per raggiungere l’aria aperta e vacillò, mentre il muro sembrava una bocca spalancata sotto di lui; si tenne saldamente attaccato alle corde che servivano a reggere la tenda cerimoniale. Doveva essere molto veloce, altrimenti la sua agile mossa sarebbe stata inutile. Un’occhiata alla barriera di nuvole al di sotto gli fece venire un buco allo stomaco. S’aggrappò alla tenda ancora più saldamente e aiutandosi con le gambe incominciò la discesa del muro.
Nei pochi secondi prima che i guerrieri rovesciassero il tavolo, aveva avuto una visione. Uno sguardo al futuro. Al suo futuro. A quello che gli sarebbe accaduto dopo la dichiarazione al Generale e alla tribù: sarebbe diventato di loro proprietà e avrebbe perso ogni diritto. La sua libertà sarebbe stata il prezzo da pagare per la vita: il battito cardiaco e la respirazione sarebbero state le uniche cose di cui il suo nuovo padrone non avrebbe potuto disporre. E in quel futuro, la tribù l’avrebbe inviato con un contratto di lavoro a lungo termine — il che significava a vita — in qualche impianto di produzione del settore orizzontale, nelle viscere della pelle metallica del Cilindro. A una distanza infinita dalla rotazione del giorno e della notte, in una perpetua luce fluorescente, che faceva apparire tutti degli scheletri viventi. Era stata una percezione molto vivida: restare imprigionato in una di quelle industrie interne, di cui si sarebbe gettata via la proverbiale chiave, significava essere morti, porre fine alla propria vita, abbandonare per sempre qualunque opportunità questa potesse offrire. Dormire di fianco a qualche macchina di plastica per quattro ore — o almeno così dicevano: non c’era modo di stabilire se davvero si trattasse di quattro ore, visto che gli oggetti non potevano servirsi di altri oggetti, come orologi o terminal — e poi tornare al lavoro per le seguenti venti ore; e il ritmo si ripeteva all’infinito, fino a quando nell’individuo si alienava ogni capacità critica e ogni azione veniva ripetuta meccanicamente, senza più porsi domande. E, a quel punto, anche gli uomini diventavano dei congegni e la trasformazione in oggetto era completa.
Era poi così male? In fondo sarebbe stato vivo, almeno. E non tanto diverso da ogni altro povero bastardo che lavorava al settore orizzontale, sia che fosse profumatamente pagato o che fosse uno schiavo. Era una vita in cui si sapeva bene che il giorno seguente sarebbe stato del tutto identico al precedente. Quella era la natura dell’esistenza orizzontale. Era quello da cui era fuggito, erano le sue radici; adesso stava per tornarci.
Tornare indietro… Quelle parole continuavano a frullargli in testa mentre si muoveva a carponi, guardando il cunicolo che si allungava davanti a sé, e i guerrieri della Folla che cercavano di rovesciare il tavolo. Alla fine del cunicolo c’era ad attenderlo la morte ulteriore. Tornare indietro…
Poi girò la testa e un lampo di luce gli colpì gli occhi: vide un sottile spicchio di cielo argenteo vicino alla sua mano sinistra. E capì cosa fosse successo: quando il tavolo si era rovesciato aveva strappato la tenda. Un piccolo taglio, che sventolava alla brezza che accarezzava il muro dell’edificio; aveva assaporato quall’aria con le narici e la bocca aperta. Aria, e una fetta di nuvole, distanti, là nello spazio.
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