K.W. Jeter - L'addio orizzontale

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Nella letteratura gialla, si sa, c’è stato
di Raymond Chandier, e in fantascienza
di Leigh Brackett, che in Italia è stato tradotto, purtroppo, con un altro titolo. Sono metafore suggestive, un modo laconico per attirare la nostra attenzione su avventure disperate, forse ai confini del possibile, ma non per questo meno profondamente umane. È perciò che, giocando sulle parole, abbiamo deciso di tradurre letteralmente il titolo di questo romanzo di K.W. Jeter: una storia intensa che ci ricorda i maestri del cyberpunk e dove ogni azione, ogni personaggio sembra fare il doppio gioco, in un intrigo che si risolve solo alla fine. Jeter è più che una promessa della fantascienza, e non esitiamo a raccomandare L’addio orizzontale ai nostri lettori come una storia «diversa» , forte e insolita, ma credibile e senz’altro avvincente come un romanzo hard-boiled.

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Non ci avrebbe messo tanto ad andare a prendere l’invito se non avesse dovuto attraversare l’accampamento due volte. Quando si era svegliato, nel buio, e aveva guardato l’orologio, accorgendosi che aveva appena il tempo di cambiarsi e precipitarsi al banchetto, era stato colto dal panico. Guardando verso l’alto del muro aveva visto una folla di guardie che proteggeva la grande tenda a strisce montata su una piattaforma che si ergeva direttamente nello spazio. Suppose che sarebbe stato più semplice lasciare la Norton e il sidecar dove si trovavano e procedere lungo un cavo di transito. Quando vide le file di veicoli e le frotte di moto che assediavano la tenda si rese conto di aver preso una saggia decisione; la Folla Devastante aveva spedito inviti a tutte le tribù alleate e a qualche rivale non particolarmente pericoloso. Non ci sarebbe stato posto per la Norton in quel groviglio di ruote e cavi.

Anche se la sentinella l’aveva riconosciuto perfettamente, non l’aveva lasciato entrare senza l’invito, su cui era scritto a lettere dorate su sfondo nero: Nunc est bibendum, nunc pede libero mura pulsanda. Quindi era dovuto tornare indietro, tenendo la testa bassa per evitare pugni e colpi, scivolando tra schiene e gambe sudate. Stava tornando verso l’accampamento, con la sua giacca migliore già tutta spiegazzata, quando notò una sospetta macchia beige sugli stivali.

Cripplemaker gli mise un braccio intorno alle spalle e lo spinse verso il centro della tenda. — Tu l’hai creato! Grandioso! — Axxter trasalì al grido del Generale.

C’era un posto per lui vicino al palco centrale. Accanto a lui sedevano ufficiali minori e alcuni dignitari per diritto d’eredità: quello alla sua sinistra aveva il viso in una chiazza di vino che era caduto sul tavolo e con una mano stringeva con forza l’impugnatura della brocca. — E tu chi sei? — chiese una faccia stordita alla sua destra.

In un angolo della tenda, i corni erano tornati sul palco, unendosi alle percussioni. — Sono solo un impiegato. — Aveva un sorriso sereno mentre sollevava il gomito dalla macchia di vino. — Faccio qualche lavoro di grafica qui e là.

— Già, già. Grande. — L’uomo guardò il tavolo in tutta la sua lunghezza e afferrò un’altra brocca. Bevve e fissò il vuoto davanti a sé, ignorando chiunque altro gli fosse intorno.

Axxter allungò il collo, guardando verso il palco. Con ogni probabilità si era perso la cena, perché i camerieri stavano portando via piatti unti coperti solo di ossa. Non aveva comunque fame: il suo stomaco si contorceva per l’emozione.

Poteva vedere Cripplemaker al centro dei tavoli dei dignitari: si era seduto e parlava, rideva e dava pacche sulle spalle a quelli seduti vicino a lui. Non indossavano il vestito da cerimonia della Folla Devastante, quindi Axxter suppose che si trattasse di persone importanti di tribù alleate. Le grandi pistole , vecchi bastardi grinzosi con lo stesso sguardo a fessura e guerrafondaio che aveva anche il Generale, il tipico sguardo di chi è abituato al comando e alle stragi. Quando ridevano sembravano trappole d’acciaio che si aprivano per mostrare i tremendi meccanismi al loro interno. Cripplemaker si allungò sulla sedia prendendo un enorme sigaro; i suoi occhi incrociarono quelli di Axxter. Attraverso una barriera di fumo egli vide il cenno che il Generale gli fece.

La suoneria che Axxter aveva caricato gli trillò nelle orecchie, mentre un piccolo segnale rosso si accese ai margini del suo schermo. Solo tre minuti allo spettacolo; conto alla rovescia. La banda smise di suonare la sua mortale marcia di guerra e attaccò un ostinato, sempre più preciso a ogni da capo. I camerieri cominciarono a spazzare il pavimento davanti al palco.

Attraverso la folla si formò un corridoio: puntando i tacchi sulla superficie della piattaforma, i guerrieri formarono un cordone umano per trattenere la gente. Dietro a loro, la folla, compressa in uno spazio più stretto, urlava e fremeva, stimolata dal ritmo della banda. Axxter notò che un tizio stava mordicchiando l’orecchio di una guardia, ormai diventato tutto rosso. Una gomitata alla gola lo fece cadere all’indietro, ai piedi dei suoi camerati.

I corni tennero un semi-tono, risolvendo la dissonanza in ottava; i tamburi si lanciarono in un doppio-tempo. Le luci della tenda si spensero: rimase acceso solo un riflettore che illuminava una figura all’inizio del tunnel umano.

L’hanno oliato bene… Axxter riconobbe a fatica il vecchio guerriero che camminava verso il centro della tenda. I medici della Folla, o qualche libero professionista chiamato per l’occasione, avevano pompato il vecchio con qualcosa che teneva eretta la sua spina dorsale e conferiva un’espressione fiera al suo sguardo incavato. Aveva la barba lavata, pettinata e intrecciata con fiocchi neri, alcuni dei quali erano abbastanza lunghi da arrivargli alle spalle mentre camminava; a ogni passo appoggiava a terra un bastone alto come lui, sulla cui cima di metallo era inserito un microfono per trasmettere e ricevere veloci comunicazioni al di sopra del rumore della folla. Una cappa ricamata gli arrivava fino ai lucenti stivali e copriva la sua armatura.

L’accordo della banda si abbassò quando il vecchio guerriero raggiunse il punto stabilito. Si fermò e buttò indietro la testa, impugnando saldamente la cima del bastone. Scrutò la folla; mostrò i denti gialli e assaporò lo sguardo di tutte quelle persone puntato su di lui.

I corni e i tamburi tacquero e miracolosamente ci fu il silenzio. Ad Axxter il frastuono delle orecchie rimbombava ancora nella testa. La folla taceva. Tutti si alzavano sulle punte per vedere meglio oltre il cordone di sentinelle che li tratteneva.

00:00:30. Era l’ora che segnava l’orologio davanti agli occhi di Axxter. 00:00:29, 00:00:28… Il suo cuore batteva al ritmo della luce rossa dell’orologio.

Alzò lo sguardo verso il palco mentre il Generale Cripplemaker sollevava una mano e la lasciava ricadere come un’ascia. Un segnale per il vecchio guerriero: Axxter si girò a guardarlo e vide che la figura barbuta si era già scrollata dalle spalle il manto che giaceva a terra vicino ai suoi stivali. L’aria all’interno della tenda si era rarefatta: tutti trattenevano il respiro.

L’armatura del guerriero, le grandi curve del pettorale, la fascia sullo stomaco, le rotondità che coprivano le spalle e le ginocchia, i bracciali e i gambali… era tutto bianco. Il biofoglio luccicava, riflettendo i visi stralunati. Un tessuto innestato sulla carne ormai insensibile e riscaldato dalla pulsazione sanguigna sotto la pelle. Tutto aspettava di prendere vita.

00:00:01 e… 00:00:00. L’orologio rosso esplose all’angolo dello schermo di Axxter.

Per un attimo ebbe la sensazione che il biofoglio avrebbe continuato a restare bianco. Che niente sarebbe accaduto. Porca puttana! Disse una voce dentro di lui che balbettava in preda al panico. Quei rottinculo della Piccola Luna, non hanno inviato il segnale d’animazione…

Un punto nero si formò sul petto dell’armatura del vecchio guerriero, dando vita a una spirale a Fibonacci. La folla esplose in un’esclamazione: ahhhh. Axxter si rilassò nella sedia, tirando un sospiro di sollievo.

I punti si mossero a grappolo e si fusero; l’armatura si ossidò, come fosse uno specchio nero. Apparvero banchi di nebbia grigia, che si sollevarono per lasciar posto a un campo di battaglia disseminato di teschi. Il guerriero guardava verso il basso, osservandosi, con l’espressione stupita di un bambino.

Figure sul campo di battaglia allungavano le loro ombre in controluce. Un mormorio si sollevò dalla folla che indicava i vecchi eroi morti, rugosi veterani che indossavano i colori dei loro squadroni; in quell’immagine gli attuali capi apparivano invece saggi e risoluti mentre osservavano i corpi dilaniati dei nemici per poi perdere il loro sguardo verso un orizzonte distante e ricco di future glorie. Dietro a tutti loro c’erano le mitiche figure dei Fratelli di Latta, i fondatori della tribù, raggianti come fossero immortali.

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