Zach Hughes - Segnali da Giove

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Segnali da Giove: краткое содержание, описание и аннотация

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Da osservazioni raccolte sulla Terra risulta che nella bassa atmosfera di Giove è entrato qualcosa da cui cominciano a pervenire dei segnali. Un Ufo? La deduzione sembrerebbe inevitabile dal momento che nessuna astronave terrestre è ancora mai penetrata laggiù. Ma Zach Hughes — autore dell’indimenticabile Il campo degli Ufo e specialista di fantascienza spaziale non può certamente accontentarsi di una spiegazione così semplice…

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Su un modello di pianeta grande quanto una mela, la zona operativa della Kennedy poteva essere rappresentata dallo spessore della buccia del frutto. Sotto quel sottilissimo strato operativo c’erano l’immediata implosione dello scafo e la morte.

Quant’era grande quel mostro! Era psicologicamente soffocante. Ingoiava tutto lo spazio che si vedeva dagli oblò. Aveva il peso di una stella mancata, e una massa incredibile. Quando la Kennedy si girò, quell’immenso disco giganteggiò sopra di essa, e l’equipaggio provò un senso di stordimento. Ellen si coprì gli occhi con le mani quando il gigante gassoso venne loro incontro con la sua pressione, la sua gravità, le sue scariche elettromagnetiche. La Kennedy arrivò vicino all’orbita del satellite più interno, Amaltea. Adesso Amaltea era sopra di loro e un po’ più avanti rispetto a loro, e la nave si trovava tra l’orbita del satellite e lo strato più esterno di nubi. D’un tratto ci fu una grande scarica di elettricità che illuminò la zona tra il satellite e il pianeta; nel vuoto era silenziosa, ma brillante e terribile, e se la nave ne fosse stata colpita le conseguenze sarebbero state fatali. Ancora una volta, mentre Dom tratteneva il fiato, una tremenda scarica illuminò la zona tra il pianeta e il satellite.

— Credo che stia cercando di dirci qualcosa — disse Neil, con voce da cui trapelavano fascino e sgomento.

— Il vecchio Giove, dio dei fulmini — disse J.J. — sta dicendo: Osservate la mia potenza, volgari mortali, e guardatevi da me.

— Non sapevo che avessi un’ anima poetica — disse Dom.

Dom era turbato dalla grandezza di Giove. Il pianeta era là sopra le loro teste, immenso, mentre la Kennedy continuava a scendere misurando le proprie forze. I sensori dello scafo cominciarono a riconoscere la presenza delle prime lievi tracce di atmosfera. La Kennedy si stava comportando bene. Gli strumenti lavoravano e misuravano e fornivano indici di riferimento, e il computer ronzava. Molecole sparse di ammoniaca ghiacciata produssero una graduale diminuzione della visibilità. La Kennedy continuò a scendere in uno scuro mare di cristalli, che lo scafo scioglieva. La temperatura stava salendo, ma rientrava perfettamente nei livelli operativi.

— Mettetela in orizzontale — disse Dom quando la pressione fuori diventò quella di un’atmosfera terrestre.

Neil tolse il pilota automatico, per sentire di più la nave in caso ci fosse stato un guasto ai sistemi. L’astrocisteraa era in un’orbita stazionaria, e la pressione era sui valori previsti.

Era il momento di collaudare una delle più importanti armi di battaglia che la Kennedy poteva sfoderare contro il gigante gassoso. Dom ordinò una pressione di due atmosfere nei reparti abitati. Sentì le orecchie fischiargli mentre la pressione si accumulava. Enormi pompe cominciarono a togliere aria pura dalla stiva e a fare entrare al suo posto l’atmosfera velenosa di Giove.

Soddisfatto che il sistema di pressurizzazione interno funzionasse a dovere, Dom ordinò di scendere fino ad avere un livellamento di pressione. Poi, ogni volta, il processo veniva ripetuto. In quell’atmosfera buia, la nave vedeva solo grazie agli strumenti e si teneva direttamente sopra la nave aliena, guidata dal suo segnale costante. Quel segnale e quella nave erano lo scopo di tutta l’impresa. Era stata la nave aliena ad attirarli fin lì, a determinare queill’ultimo disperato tentativo da parte dell’industria spaziale. Solo la nave aliena e il suo segnale giustificavano il costo della Kennedy, i rischi che si correvano, l’uso di materiali rari.

E il segnale cessò quando la Kennedy era già scesa fino a solo sei atmosfere.

Si fece un improvviso silenzio quando questo accadde, e di colpo la Kennedy parve diventare come un dinosauro: una cosa immensa senza più alcuno scopo.

— Controllare le apparecchiature — ordinò Dom.

— Tutto controllato — disse Doris.

— Controllo manuale — disse Dom. — Mantenete questa posizione.

Lui stesso fece un controllo manuale del ricevitore. Funzionava perfettamente. Un controllo radio con la nave pattuglia confermò loro che il segnale proveniente dalla nave aliena era cessato all’improvviso.

— Perdio — disse Dom — e siamo solo a metà strada. — Erano a metà strada per quanto riguardava la distanza, non la pressione. — Resteremo qui qualche ora. Forse ricomincerà.

Passarono quattro ore, durante le quali la nave funzionò alla perfezione. La nave aliena continuò a tacere.

— Forse ci hanno sentito arrivare e non vogliono compagnia — disse Doris.

— No, è cessato semplicemente — disse J.J. — E già molto che sia durato così a lungo. La nave è ancora là.

— Per quello che serve — disse Dom.

— Abbiamo la posizione — disse J.J. — Possiamo scendere esattamente sopra di essa.

— È del tutto improbabile — disse Neil. — I venti sono potenti, anche se non andiamo a vela ma a motore, e ci sposterebbero. Senza il segnale a guidarci, non potremmo che affidarci al caso, per raggiungerla.

— La discesa è calcolata dal computer — disse J.J. — Possiamo portare delle correzioni ai calcoli. Possiamo arrivare a qualche miglio dal punto e cercare.

— Se avessimo cent’anni a disposizione potremmo forse anche trovarla — disse Dom.

— Abbiamo tempo — disse J.J. — E inoltre abbiamo energia, aria e provviste.

— J.J., abbiamo costruito questa nave per restare a tremila atmosfere un lasso di tempo limitato — disse Dom. — Dopo dieci giorni comincerei ad avere paura dell’affaticamento metallico nell’incollaggio porridge.

— Va bene, abbiamo dieci giorni — disse J.J. — Se non altro usiamoli.

— Vorrei osservare che in questo caso esporremmo la nave e il suo equipaggio a un pericolo inutile — disse Neil. — Secondo me, procedere oltre dentro l’atmosfera è ormai inutile. Se ci fossi io solo a bordo porterei la Kennedy fino a tremila atmosfere, giusto per verificare l’efficacia del progetto, ma non sono solo. E una cosa è mettere a repentaglio la vita di un pilota collaudatore durante un volo di prova, un’altra mettere a repentaglio la vita di un intero equipaggio.

— Resteremo qui ancora per un’ora — disse Dom.

Fu un’ora carica di tensione, e quando terminò J.J. si mise a camminare su e giù per la sala di controllo con aria ingrugnita. Dom aveva passato l’ora lavorando con Doris, a cui aveva fatto fare una serie di controlli.

— J.J. — disse — se avessimo una probabilità su mille di trovare la nave la porterei giù, ma ho fatto i calcoli col computer, e le probabilità di trovarla sono una su un miliardo. Ho anche fatto alcuni calcoli sulle probabilità di sopravvivenza in caso si resti a lungo a tremila atmosfere. Dopo otto giorni, le probabilità che la nave non regga diventano troppe. Credo che noi serviamo più vivi che morti, e che la nave possa servire in futuro a fare la spola Marte-Terra. In una parola, sto dando l’ordine di riportarla su, fuori dall’atmosfera.

— Allora sono costretto a chiederti di rinunciare al comando — disse J.J.

— No — disse calmo Dom. — Sono io il Comandante. La nave l’ho costruita io, e conosco i suoi limiti.

— Non hai scelta — disse J.J.

— Come tuo superiore di grado, ti informo che il comando lo assumo io. Signor Walters, preparatevi a portare la Kennedy a tremila atmosfere.

— Con il dovuto rispetto, signore, mi rifiuto di obbedire — disse Neil. — Non sono d’accordo sul fatto che il Comandante Gordon debba essere destituito.

J.J. si trovava davanti a loro, e aveva le mani dietro la schiena. Si guardò i piedi e si spostò lentamente, tenendo le mani sempre dietro la schiena. Rimase a lungo così, girato quasi di profilo rispetto a loro, poi si voltò di scatto. In mano aveva una pistola, piccola ma micidiale. Era un’arma concepita per uccidere a distanza ravvicinata, in ambienti particolarmente delicati, come poteva essere quello di un’astronave. L’esplosione dei suoi proiettili multipli poteva essere fatale a chiunque si trovasse alla distanza di circa un metro, ma la forza impressa ai proiettili stessi non era sufficiente a produrre, per esempio, dei buchi nello scafo della nave.

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