Zach Hughes
Segnali da Giove
Se gli avessero chiesto di servirsi dei trasporti pubblici, Dominic Gordon, detto Dom, si sarebbe rifiutato di fare quel viaggio. Dom detestava i camion a carbone affollati, rumorosi, fuligginosi, dove i sorveglianti alle dipendenze dello stato la facevano da padroni. Detestava viaggiare in superficie, e trovava quasi nauseante il contrasto tra quel pianeta marcescente e le profondità vuote e pulite dello spazio.
Diversamente da molti spaziali, non provava disprezzo e avversione per la vecchia Terra. Essa era, in fondo, l’origine, la fonte unica di molte cose, la madre di tutti, la patria. Marciva e imputridiva e continuava a tollerare che nascessero troppi uomini che, come aveva detto Goethe, sono così ammirevoli presi individualmente, e così riprovevoli presi in massa. Non sentiva disprezzo per la Terra di per se stessa, ma perisuoi abitanti. Imprecò spazientito, quando, per far passare un grosso veicolo merci pilotato automaticamente, fu costretto a spostarsi verso le dune a lato delle due corsie di quella che era stata una superstrada a quattro corsie.
Si asciugò il sudore dalla fronte mentre aspettava che il veicolo passasse, poi sterzò e riportò la vecchia macchina sulla strada piena di buche. Il sistema di condizionamento d’aria dell’auto era stato tolto malamente, per cui ora sul cruscotto c’era un grosso buco. Dal tetto era stato strappato quasi tutto il rivestimento, sicché tra Dom e il sole del deserto c’era soltanto una sottile lastra di metallo. Il motore, che era stato modificato perché consumasse metano, puzzò, tossì, ansimò e arrancò cercando di riacquistare velocità. Il serbatoio della benzina, sul di dietro della macchina, era stato mal progettato, e non era per niente aerodinamico. Il vento secco e contrario diede a Dom l’impressione di vivere in un incubo mentre la macchina, faticosamente, riusciva a raggiungere di nuovo gli ottanta chilometri all’ora.
Quando Dom raggiunse le colline, l’auto arrancò più che mai in salita, e si lanciò in discesa come un peso morto, mentre il massiccio serbatoio posteriore tendeva a farla ondeggiare. Dom lanciò imprecazioni colorite contro la macchina, le sabbie roventi, le rocce desolate e la strada accidentata. Ne riservò alcune anche al Ministero dell’Esplorazione Spaziale e a tutti quelli che si erano resi responsabili di averlo spedito in quel deserto a bordo di una macchina di terra che avrebbero dovuto demolire già da dieci anni.
Una macchina col pilota automatico, la seconda che incontrava da quando aveva lasciato la grande città che si estendeva su tutto il territorio che andava dal deserto al mare, suonò il clacson chiedendo spazio. Dom trovò una piazzola appena in tempo, e l’automa passò rombando, con le antenne che si muovevano come quelle di un insetto gigantesco. Da dentro l’abitacolo Dom riusciva a vedere la sommità delle colline. La macchina arrivò in cima col radiatore sul punto di bollire, poi si lanciò in discesa, e il motore per fortuna si raffreddò. La velocità diede a Dom l’illusione di un po’ di fresco, e il vento gli scompose i capelli, soffiandoglieli in faccia.
Sulla terra desolata il riverbero del sole era accecante. Dom incontrò una macchina, un modello abbastanza nuovo, probabilmente una di quelle dell’ultima infornata, che risaliva a meno di dieci anni prima. Aveva il distintivo del governo sul cofano e sulle portiere. Il guidatore era il primo essere umano che Dom avesse incontrato da quando aveva lasciato la città, e gli fece venire il desiderio infantile di salutare con la mano.
Adesso che la macchina era in discesa e filava senza arrancare, Dom si sentì libero di immergersi nei suoi pensieri, e si chiese come mai gli fosse stato ordinato di presentarsi al MINESPOV, il Ministero dell’Esplorazione dello Spazio, Sezione Ovest. Non seppe rispondersi. Lui era un ingegnere astronautico, uno spaziale. Era molto improbabile che fosse stato invitato lì nel deserto per una reprimenda. Il suo curriculum era pulito, o almeno lo era stato negli ultimi due anni. In quei due anni non aveva mai picchiato un ufficiale di grado superiore, e aveva già scontato il periodo di restrizioni per le sue vecchie colpe. Aveva passato un anno intero senza poter disporre di nessuno dei piccoli extra, un anno durante il quale le sue razioni speciali erano state distribuite agli altri membri dell’equipaggio; un anno intero senza licenze, nemmeno per Base Luna. Poi, proprio quando pensava di essere maturo per una vacanza, e proprio mentre stava facendo progressi con quello spilungone di ufficiale delle comunicazioni dell’Operativo di Los Angeles, aveva ricevuto l’ordine di presentarsi al più presto al MINESPOV, che era a casa del diavolo, nel bel mezzo del deserto del New Mexico.
Il sole era già basso quando Dom arrivò al perimetro esterno della base. Uscendo dalla macchina, Dom si stirò, si tolse la polvere dall’uniforme e si lasciò esaminare da un rivelatore. Anche la macchina fu esaminata attentamente. Era la procedura operativa standard. Era impossibile controllare tutti gli esaltati, in una popolazione composta da trecento milioni di matti potenziali, ma si poteva almeno limitarne l’accesso alle zone più importanti.
Quando oltrepassò il posto di guardia del perimetro, Dom vide davanti a sé altra terra desolata, ma era ormai abbastanza vicino alla base da pregustare la bevanda fresca che avrebbe bevuto, il bagno che avrebbe fatto, e il pasto che avrebbe consumato. Un segnalatore robot lo fece rallentare. Dom sterzò, affiancandosi a una fila di macchine da costruzione che stavano andando lentamente nella sua stessa direzione. Aveva già superato metà fila quando il segnalatore gli indicò di rientrare. Dom si ritrovò così dietro un enorme mezzo che trasportava una pesante gru. Il veicolo sembrava il fulcro dell’intero convoglio di scavatrici, ed era guidato da un essere umano. Dom suonò il clacson perché l’enorme veicolo gli desse un po’ di spazio per passare. La base era vicina. Sulla sua destra Dom riusciva a vedere il profilo di un edificio basso. Si avvicinò di più al mezzo di trasporto che lo precedeva, preparandosi a premere l’acceleratore quando l’altro gli avesse dato il via libera, e arrivò col cofano direttamente sotto il braccio della gru.
Il guidatore sembrava sordo. Dom si sporse fuori del finestrino e suonò di nuovo il clacson, urlando. Guardò se ci fosse lo spazio sulla destra per passare, e mentre lo faceva colse con la coda dell’occhio un movimento.
Dom aveva sempre avuto i riflessi prontissimi. La velocità con cui reagiva nelle situazioni di pericolo era una delle sue peculiarità più note. Più di una volta i riflessi prontissimi gli erano stati di grande aiuto, e lo furono anche questa volta. Premette bruscamente il freno, e la macchina si bloccò dondolando sugli ammortizzatori. Nello stesso tempo, col piede ancora premuto sul freno, Dom si buttò sulla destra sul pavimento dell’auto proprio nel momento in cui la gru schiacciava la sottile lamiera del tetto. Il veicolo che trasportava la gru continuò ad avanzare, trascinandosi dietro la macchina di Dom. Si sentì uno scricchiolio metallico, mentre il tetto si piegava e torceva. Dalle gomme bloccate dell’auto provenne un filo di fumo. La gru continuò ancora per una trentina di secondi a schiacciare il tetto, poi cominciò a torcere il cofano. La ventola di raffreddamento tintinnò a contatto col metallo della gru. Il motore tossì e poi tacque. La macchina restò immobile.
Dom sospirò e prese un attimo fiato. Poi sobbalzò di colpo, perché la scavatrice automatica dietro di lui cominciò a dare colpi alla macchina, finché questa non scivolò verso la lama del congegno. Dom sentì l’auto andare in pezzi. Si udì uno stridìo metallico, poi ci fu un altro sobbalzo quando la macchina smise di spostarsi in avanti e, così schiacciata com’era, andò a incastrarsi saldamente sotto il braccio della gru, nel di dietro del veicolo che trasportava quest’ultima.
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