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Zach Hughes: Segnali da Giove

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Zach Hughes Segnali da Giove

Segnali da Giove: краткое содержание, описание и аннотация

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Da osservazioni raccolte sulla Terra risulta che nella bassa atmosfera di Giove è entrato qualcosa da cui cominciano a pervenire dei segnali. Un Ufo? La deduzione sembrerebbe inevitabile dal momento che nessuna astronave terrestre è ancora mai penetrata laggiù. Ma Zach Hughes — autore dell’indimenticabile Il campo degli Ufo e specialista di fantascienza spaziale non può certamente accontentarsi di una spiegazione così semplice…

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— Non capisco… — cominciò Dom.

J.J. gli fece segno di stare zitto. — Il Presidente è un brav’uomo. Sotto sotto è dalla nostra parte, ma non può opporsi all’opinione pubblica. È un fatto inevitabile. Ci ridurranno il budget. Prima di tutto dovremo dire addio alle esplorazioni, poi all’elaborazione di nuovi programmi. Cape Canaveral sarà il primo a essere chiuso, questo è poco ma sicuro. Non si costruiranno più navi. C’è anche chi sta cercando di far chiudere l’Accademia e di farla confluire in quella di West Point, per risparmiare denaro. Sai cosa significherebbe tutto questo. Dicono che in parte sarebbe per garantire l’incolumità degli studenti.

— Ho sentito dell’ultimo incidente — disse Dom. — Quei ragazzi sarebbero dovuti rimanere nella zona d’addestramento.

— Non l’hanno fatto, e i terristi ne hanno beccati sei di loro — disse J.J. — E quello, a quanto pare, è stato il primo incidente di una nuova ondata di terrorismo. I cuori nobili dicono che possiamo fermare gli spargimenti di sangue solo abbandonando lo spazio. Dicono che dovremmo lasciare al loro destino i pianeti deserti e inutili, e tornare sulla Terra per lavorare insieme al fine di renderla abitabile. Ma siamo un po’ in ritardo per fare questo. Ormai abbiamo consumato tutte le risorse della Terra, l’abbiamo ridotta a un guscio vuoto. Le abbiamo fatto portare un carico umano troppo pesante: troppa gente, e troppo poco buon senso. Lo sai che uno degli ultimi gruppi terroristici uccide i taglialegna in nome della libertà per gli alberi?

J.J. sbuffò e continuò: — Gli alberi, Cristo. Gli alberi hanno dei diritti, certo: hanno altrettanto diritto a vivere di noi. Non so cosa pensino che possiamo usare per sostituire i prodotti delle foreste, le uniche zone della Terra in cui l’uomo abbia mostrato di saper competere con la natura, visto che è riuscito a escogitare il modo per far crescere gli alberi più in fretta rispetto al ritmo naturale. Ma loro vogliono che smettiamo di uccidere gli alberi. Dicono che è un assassinio, e che contrasta con le leggi sulla libertà dell’individuo.

— A me questa sembra una sindrome da sovraffollamento — disse Dom.

— Già, e questo noi lo capivamo — disse J.J., — ma loro no. Lo spazio è la nostra ultima speranza. È una speranza che perderemo, a meno che non riusciamo a penetrare nell’atmosfera di Giove e a riportare indietro quella nave.

— Uhm — grugnì Dom.

— Dom, tu sei il miglior progettista di scafi di tutto il nostro servizio, e quindi il migliore del mondo. Sei l’uomo anti-pressione. Se sei in grado di progettare uno scafo che resiste a mille atmosfere, sei in grado di progettarne anche uno che resista a tremila atmosfere.

— Resta la faccenda della propulsione — disse Dom. — Fornire una simile nave di combustibile sufficiente significherebbe fare i conti con cifre iperboliche.

— La fonte di energia l’abbiamo già. È nuova e non è ancora collaudata, ma l’abbiamo.

— L’esplosivo nucleare? — disse Dom.

— Sarà come essere seduto in groppa a una bomba.

— Oh-oh.

— Tu sei l’uomo giusto, Flash — disse J.J. — Sta a te tentare. Puoi chiamare a lavorare con te chiunque tu voglia.

— Art Donald.

— È già qui.

— Doris e Larry Gomulka.

— Doris è in viaggio. Larry sta terminando un progetto e sarà qui nel giro di una settimana.

— È un buon inizio — disse Dom.

— È la squadra che usasti per progettare lo scafo da immersione per l’oceano.

— Ci saranno problemi di finanziamento?

— Non stavolta, Flash. Intendiamo giocarci il tutto per tutto in questa faccenda.

— Bene, comincerò con l’addebitarvi un po’ di vestiti da lavoro che comprerò al vostro magazzino.

— Il costo di quelli verrà detratto dal tuo stipendio.

— Come sei buono! — disse Dom.

— Oh, siamo molto generosi, qui al MINESPOV — disse J.J.

3

Dom fu svegliato da un brusio di voci. Era tornato in ospedale per facilitare la somministrazione delle medicine. Queste erano così efficaci e gli guarivano le ustioni così in fretta, che al momento del risveglio non sentiva quasi più male, solo un lieve prurito sotto le bende. Si sentiva la mente annebbiata. Aveva ingerito un sedativo per scacciare l’idea di uno scafo capace di sopportare una pressione di tremila atmosfere. Non aveva voglia di aprire gli occhi e di affrontare il problema.

— Credo che ormai risenta dell’età — disse J.J. Barnes.

— In più, ha una totale mancanza di dinamismo e di ambizione — disse un’altra voce.

— Si fa una vita troppo dissoluta, nelle grandi città — disse J.J. Barnes.

Dom aprì un occhio. Erano ai piedi del suo letto, dietro la testiera: J.J. in uniforme, Art Donald in jeans e pullover. Art era un uomo malandato, che sembrava doversi spezzare da un momento all’altro. Aveva dei problemi con i polmoni. Ogni tanto qualche cellula gli soffiava una bolla nel tessuto dei polmoni, e lui era costretto a restare per un po’ immobile in un letto d’ospedale. Aveva i capelli neri e lisci, la pelle butterata a suo tempo dall’acne, gli occhi svegli.

Stava fumando. Art era sconsiderato. Alle feste rischiava di farsi scoppiare i polmoni fumando, bevendo e ballando i balli più frenetici. La sua conoscenza dei metalli era unica al mondo.

— Piacere di vederti, Art — disse Dom.

— Vuoi scendere da letto, adesso? — disse J.J. lievemente irritato.

— No — disse Dom.

— Va bene, se non vuoi vedere un uomo cavalcare una bomba — disse J.J.

— Preferirei guardare una donna fare una cosa qualsiasi — disse Dom, ma saltò giù dal letto e fu subito costretto a chinare la testa per l’improvviso capogiro che gli venne. Subito arrivò un’infermiera che senza preavviso infilò una siringa nel braccio di Dom.

Il liquido cominciò ad agire quasi istantaneamente, mitigando gli effetti del sedativo.

In pochi minuti Dom si vestì e raggiunse J.J. e Art nel corridoio. Non parlarono né in ascensore, né mentre attraversavano l’atrio. Fu solo quando salirono sulla velocissima monorotaia che J.J. spiegò come stavano le cose.

— Abbiamo un veicolo sperimentale in attesa a circa un’unità astronomica da qui, verso la stella polare — disse J.J.

— La nuova propulsione?

— È la prima prova con essere vivente a bordo.

— Chi c’è a bordo? — Neil.

Neil era Neil Walters. Tra spaziali non occorreva specificarne anche il cognome. — Non si potrebbe chiedere di meglio — disse Dom.

Non aveva mai visto le attrezzature di controllo del MINES Sembrava una Houston in miniatura, e Dom si stupì di quella riproduzione così fedele. Si chiese cos’altro ignorasse del MINESPOV.

J.J. li condusse in un buon posto, direttamente dietro il tecnico dei contatti e le consolle. Si stabilì la comunicazione. Era il vecchio, vecchissimo rito del pilota che parlava con la torre di controllo. Un pilota d’aviolinea della metà del ventesimo secolo avrebbe indubbiamente riconosciuto la forma e il gergo di quello scambio, a parte forse qualche termine tecnico. Era in corso il conto alla rovescia, e si stavano esaminando le liste di controllo.

— In quanti sono a bordo? — chiese Dom.

— Solo Neil.

— Il rischio è alto allora, vero? — disse Dom.

— Lui se ne rende perfettamente conto — disse J.J.

— Ed è così coraggioso da tentare lo stesso? — disse Dom. — Neil è, fra gli spaziali, quello che più si avvicina al tipo dell’eroe.

— Accendere i retrorazzi — disse uno degli addetti al controllo.

Alcuni secondi dopo (l’intervallo era dovuto alla distanza tra quella sala e la precaria dimora di Neil Walters a bordo di una nuova astronave nucleare, nello spazio profondo), arrivò la voce calmissima di Neil. — Retrorazzi accesi. — La voce di Neil era sempre calmissima. Una volta Walters aveva pilotato un apparecchio sperimentale che a un certo punto non aveva più risposto ai comandi e aveva cominciato a precipitare verso il deserto; lui aveva ripreso il controllo giusto in tempo per impedire che l’impatto fosse mortale, e durante tutta quell’avventura il suo tono di voce non era mai cambiato. Solo all’ultimo momento aveva smesso di parlare tranquillamente di tecnologie non indovinate e di computer in avaria. Nel rivestimento della cabina era rimasta stampata l’impronta del suo corpo. Dopo alcune settimane passate ad aspettare che le ossa rotte si saldassero, Neil aveva portato il proprio corpo rimesso a nuovo nella troposfera, per un volo di collaudo.

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