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Zach Hughes: Segnali da Giove

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Zach Hughes Segnali da Giove

Segnali da Giove: краткое содержание, описание и аннотация

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Da osservazioni raccolte sulla Terra risulta che nella bassa atmosfera di Giove è entrato qualcosa da cui cominciano a pervenire dei segnali. Un Ufo? La deduzione sembrerebbe inevitabile dal momento che nessuna astronave terrestre è ancora mai penetrata laggiù. Ma Zach Hughes — autore dell’indimenticabile Il campo degli Ufo e specialista di fantascienza spaziale non può certamente accontentarsi di una spiegazione così semplice…

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Ancora una volta, Dom trasse un respiro di sollievo. Era ancora vivo. Stava sdraiato in uno spazio ristretto, tra il tetto della macchina che era sceso fino al fondo del sedile e i fianchi schiacciati che lo stringevano dalle due parti. Sentì l’odore del metano che usciva dal serbatoio e s’irrigidì di colpo, ma quando vide che i secondi passavano e non avveniva nessuna esplosione, provò a sbirciare da una piccola fessura che un tempo era stato un finestrino. Sentì qualcuno muoversi, fuori. Aveva il viso tutto pieno di schegge, e aveva paura di battere le palpebre, perché i frammenti di vetro potevano cadergli dai capelli e dalle sopracciglia e finire dentro gli occhi.

— Siete incolume? — chiese una voce dal di fuori.

— Il gas sta uscendo dal serbatoio — urlò Dom. — Buttate un po’ di schiuma su questo macinino.

I passi si allontanarono, ma senza fretta. Dom aveva un pezzo di metallo frastagliato che gli forava la schiena, e provò a muoversi per toglierselo di dosso. Si accorse di non essere gravemente ferito. Era in grado di muovere braccia, gambe e collo. Sopra di sé aveva parte dello schienale del sedile, e cominciò a premere contro di esso finché non riuscì a sbirciare dalla fessura. Sentì i passi tornare.

— Buttate la schiuma su ’sti rottami, prima che salti tutto in aria! — urlò.

Intravide delle gambe coperte dai pantaloni azzurri di una tuta da lavoro, e degli scarponi da lavoro. L’uomo era vicinissimo ai rottami.

— Sì, ma voi pensate a stare calmo, eh? — disse la voce.

Dom sentì un rumore metallico e un forte sibilo. Si sentì raggelare. Il gas stava uscendo in gran fretta dal serbatoio sul di dietro della macchina. Poi Dom udì un altro rumore, e quasi non credette alle proprie orecchie. Era un piccolo schiocco: l’operaio aveva attivato un cannello da taglio ad accensione automatica.

— Spegni quell’affare, maledetto cretino! — urlò Dom. — Sta uscendo il gas!

— Vero — disse l’operaio.

Le sue gambe si mossero.

Dom vide la fiamma sulla punta del cannello da taglio e capì cosa stava per succedere. Preso dal panico, premette la nuca contro il tetto schiacciato dell’auto e spinse. Sentì il metano prendere fuoco con un whoosh e avvertì subito un caldo terribile; gli arrivò alle narici l’odore acre della combustione. Come milioni, miliardi di persone prima di lui, in quel momento pensò: No, non io. Non adesso. Non ancora.

L’auto in pezzi si riempì di fumo, e il calore diventò da altoforno. Maligni tentacoli di fumo nero s’insinuarono nello spazio angusto in cui era intrappolato Dom. Fuori dalla fessura che un tempo era stata un finestrino c’era una parete di fiamme che impediva completamente la vista.

Dom era sorprendentemente lucido. Di lì a pochi secondi il serbatoio sarebbe esploso. Se non altro, sarebbe stata una cosa veloce: una grossa esplosione, una gran palla di fuoco. Sì, se non altro sarebbe stata una cosa veloce…

2

J.J. Barnes non era certo un angelo. Non lo era mai stato e, a meno che non fosse cambiato moltissimo, non lo sarebbe stato mai. Preciso, calmo, metodico, arrogante, sì. Angelico, proprio no. Alto, brizzolato, con occhi grigi dietro occhiali funzionali non cerchiati, sovrastava l’ambiente intorno a sé; il suo viso era ben rasato, maschio, quasi bello, ma non era certo da angelo.

Tutto questo affiorò a poco a poco alla coscienza di Dom. Il mondo era il viso di J.J., un viso identico a come Dom se lo ricordava. E il mondo era anche un mondo in fiamme, che puzzava di metano bruciato.

Dom sollevò la testa e si guardò in corpo. Aveva i piedi fasciati, che gli facevano male.

— La situazione non è poi così brutta — disse J.J. — Sentirai un po’ di dolore, lo so, ma il danno è lieve. Il male che senti nel culo lo senti perché quello era l’unico posto da cui potessero prendere la pelle per il trapianto.

Dom girò la testa e vide un tavolino da ospedale con sopra una brocca d’acqua, un vassoio con le medicine, un bicchiere e un piccolo vaso di rose.

— Mi senti, Flash? — chiese J.J.

Sentirsi chiamare con quel vecchio soprannome indusse Dom a cercare di mettere a fuoco meglio con gli occhi. — Credo di sì — disse.

— Quel bastardo era passato attraverso due controlli — disse J.J. — Te la senti di starmi ad ascoltare, o vuoi aspettare che la mente ti si schiarisca un po’ di più?

— Acqua — disse Dom.

— Certo. — J.J. riempì il bicchiere e lo porse a Dom.

— Grazie — disse Dom. Sentì una fitta alla natica sinistra. Provò un attimo un lieve giramento di testa, che passò subito. Bevve e restituì il bicchiere a J.J. — Sono pronto — disse.

— Flash, non riusciamo a controllarli tutti. Per quanto ci proviamo, non riusciamo a tenerli tutti lontani. Sono in troppi. È da troppo tempo che si stanno infiltrando, e alcuni di loro sono terribilmente furbi.

— Perché proprio io? — disse Dom.

— Probabilmente perché avevi un adesivo del MINES è una ragione sufficiente, per loro.

Dom si guardò i piedi. La fasciatura andava dal polpaccio in giù. Provò a muovere un dito, e non avvertì molto male. Sentiva che il dito si muoveva, anche se dall’esterno della fasciatura non si vedeva niente.

— Hanno acciuffato i responsabili — disse J.J.

— Sì, ma dopo che mi avevano dato fuoco.

— Non sei messo così male come potresti pensare. Sul collo del piede destro hanno dovuto fare un trapianto, ma con questi nuovi metodi sarai in piedi in men che non si dica.

— Lo so che le ustioni si curano bene — disse Dom. — Quello che non so è perché l’amministratore del MINESPOV stia qui ad accudirmi personalmente. E non mi convince affatto quello che hai detto circa il matto che avrebbe cercato di uccidermi solo perché ero su un veicolo del MINES. Non penso proprio che si sia trattato di una scelta casuale. E mentre mi chiedo queste cose, mi chiedo anche perché il detto amministratore del MINESPOV mi abbia impedito di prendere la licenza che mi spettava dopo ben due anni di ininterrotto lavoro, per farmi venire qua nel deserto a semicarbonizzarmi.

J.J. ridacchiò.

— Perdio, J.J. — disse Dom. — Voglio sapere cosa sta succedendo.

— Vecchio mio, prenditela con filosofia — disse J.J. — Mangia, bevi e riposati. Tra un paio di giorni vedrai che cammini già.

Dom girò la testa per cercare di vedere il punto dove gli avevano preso la pelle, nel sedere. Anche lì era fasciato. — Quando tornasti al passo, avrei dovuto lasciare che quei cadetti ti fottessero — disse.

— Se l’avessi fatto, chi avrebbe detto in giro che eri l’uomo che salvò l’esercito dal fuoco, scusa il riferimento al fuoco, nello zero sei? Adesso fa’ un sonnellino, come un bravo vecchietto che rievoca il passato, e io verrò a trovarti fra due giorno.

— J.J., tu non mi hai fatto chiamare solo per adularmi — disse Dom. — Cosa sta succedendo?

J.J. mise le mani aperte dietro le orecchie e si guardò intorno nella stanza.

Dom afferrò il messaggio: la camera d’ospedale non era stata ripulita. I muri potevano avere orecchie…

— Fra non molto verranno qui due investigatori della base — disse J.J. — Tu di’ semplicemente quello che è realmente successo. Di’ loro che stavi venendo al MINESPOV dietro invito di un tuo vecchio amico, J.J. Barnes, per parlare dei vecchi tempi e fare una bevuta. Digli che non hai idea del perché i terroristi ti abbiano scelto come bersaglio.

— È proprio la verità — disse Dom.

— Quando sarai di nuovo in piedi, sono sicuro che ti farà piacere una mia visitina amichevole.

Dom sospirò stancamente. — Ero stato invitato da un mio vecchio compagno di classe, che a forza di leccare culi è arrivato in alto. Non ho idea del perché mi abbiano preso di mira. E almeno quest’ultima affermazione è proprio vera.

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