Gli venne l’idea, allora, di non essere più quel John Markham che aveva evocato il sogno passeggero. Era a sua volta un fantasma. E il ventiduesimo secolo era solo un altro mondo di ombre che, a sua volta, si sarebbe dileguato nelle nebbie opache del tempo.
Quel pensiero gli diede una malinconia profonda e amara, un tragico senso di solitudine. Poi, guardando Marion-A, comprese che anche lei, ormai, sarebbe stata molto sola. Di una solitudine più tragica della sua. Perché lui, se non altro, aveva un passato tutto suo. Ma per Marion-A non c’era passato e non poteva esserci avvenire, nessuna speranza di un futuro che le offrisse un po’ di pace, di felicità... un po’ d’amore...
«È ora di tornare a Londra» le disse gentilmente. «Restano ancora tante cose da fare, vorrei farle con una certa calma. Vuoi che prenda io la guida?»
Marion-A scosse la testa. «Sono sempre il tuo androide personale, John.»
Durante il ritorno, discussero i progetti per il futuro. Mentre chiacchieravano, Markham si rese conto che nelle loro relazioni si era già stabilito un cambiamento ben definito. Per la prima volta, parlavano liberamente e semplicemente, da amici e da uguali. Ora lui era in grado di accettare Marion-A per quello che era. Non una donna. Non una macchina. Ma una creatura vivente e articolata, capace di lealtà e di amicizia.
Poiché Marion-A avrebbe dovuto mettersi in contatto con lo Psicoprop se, e quando, avesse avuto qualcosa di insolito su cui fare rapporto, fu convenuto che lei avrebbe fatto qualche innocuo rapporto sull’attività di Markham, e nello stesso tempo avrebbe tentato di venire a conoscenza di informazioni che potessero essere utili ai Fuggiaschi. Ma, al momento, la cosa più urgente era di mantenersi in contatto con loro. Mentre ritornavano nella City, Markhman si lambiccava il cervello per trovare un modo di mettersi subito in contatto col professor Hyggens. Paul Malloris si era offerto di fare da collegamento; ma per il momento tutto quello che Paul poteva fare era di tenersi al sicuro dalle pattuglie psichiatriche che di certo gli stavano dando la caccia.
Come si scoprì poco dopo, però, Markham non aveva alcun bisogno di sprecare tempo sul problema di stabilire contatti col professore. Appena rientrati nelle stanze di Knightsbridge, Markham trovò tra la posta una busta sigillata. L’aprì, ne estrasse un foglietto di carta e lesse questo breve ma chiarissimo messaggio: Macbelh, Atto primo, Scena prima, Terza strega, prima, seconda.
Markham aveva acquistato un vecchio volume sconquassato delle opere di Shakespeare. Sebbene, nel ventesimo secolo, avesse letto qualche lavoro e ne avesse visto perfino qualcuno a teatro, il mondo discordante in cui viveva ora l’aveva spinto a trovare scampo in ciò che definiva amaramente: l’arte pre-meccanizzata. E recentemente aveva fatto grande uso di Shakespeare per i suoi attacchi contro la programmazione di Marion-A.
Anche prima di consultare il Macbeth, Markham aveva capito il significato del messaggio. Ma per essere più tranquillo andò a verificare sul testo.
Vi trovò la conferma. L’appuntamento era ad Hampstead Heath, per il tramonto.
Chiuse il libro e guardò sorridendo Marion-A. «Pare che il primo atto stia per cominciare» disse. Poi guardò dalla finestra e vide che il sole si stava abbassando sull’orizzonte. «Ora devo andare in tutta fretta in un posto, Marion.»
«Vuoi che venga con te?»
«Per questa volta no, credo... Probabilmente dovrò comunicare con tutto il tatto possibile ai Fuggiaschi che un androide sarà dei nostri.»
«Già» disse lei con aria solenne. «Resteranno molto sorpresi... Non correre rischi inutili, John.»
Markham rise. «Precedentemente, avresti detto: non è consigliabile. »
Si mise il messaggio in tasca, uscì e risali sull’eliauto. Era già in aria quando si ricordò d’aver lasciate la pistola nel cestino del pic-nic che Marion aveva portato in casa. Per un attimo pensò di tornare a prenderla, ma aveva poco tempo per arrivare ad Hampstead Heath prima del tramonto. Poi pensò che, in ogni caso, non gli sarebbe servita a molto.
Nella penombra, pensò Markham, il professor Hyggens aveva un’aria molto solenne. La faccia bruna e gonfia sembrava luccicare un po’ sotto gli ultimi raggi obliqui, gli occhi mandavano lampi quasi riflettendo un fuoco interno, e i lunghi capelli bianchi, tenuti aderenti alla testa per mezzo di forcelle d’argento, lo facevano assomigliare più a un Vichingo predone che a un Fuggiasco di mestiere.
«E per l’eliauto?» chiese Markham. «È prudente lasciarlo qui sul prato?»
«Manderò uno dei miei ragazzi a rimuoverlo» disse il professore. Condusse Markham fino a una radura in mezzo a un folto gruppo di alberi, dove cinque o sei uomini stavano radunati attorno a un radiatore portatile che diffondeva un chiarore caldo e invitante. Sospesa al ramo di un albero, una lanterna elettrica spandeva una luce pallida sul cerchio di facce in attesa.
«Beviamo prima un po’ di caffè» brontolò il professore, tirando fuori la sua pipa. «Un uomo non può avere le idee chiare se prima non beve un buon caffè. Signori, sapete tutti come lo so io chi sia John Markham. Inutile quindi presentarlo. Ma poiché lui conosce uno solo di voi, sarà meglio che presenti voi a lui.»
Condusse Markham verso un tipo alto e sparuto che si alzò per scambiare con lui una stretta di mano. «Questo è Helm Crispin, John. Secondo le statistiche avrebbe dovuto essere stato catturato parecchi anni fa. Helm è il capo del nostro reparto per la guerra psicologica. Un tempo era psichiatra, finché gli androidi non meccanizzarono completamente la medicina.»
«Ciao, John» disse Helm Crispin. «Non puoi immaginare quanto siamo contenti di averti fra noi.»
Markham sorrise. «Il sentimento è reciproco.»
Il professore indicò l’uomo accanto a sé: un tipo piccoletto e agile, con una faccia da uccello e un corpo muscoloso e scattante. «Ecco Corneel Towne. Chimico. Si diverte a fare cose che scoppiano. Dobbiamo addirittura tenerlo a freno. È il nostro sabotatore ufficiale.»
Corneel Towne rise. «Non mi terrete a freno ancora per molto, Prof. Ora abbiamo il Sopravvissuto, e probabilmente ci metteremo al lavoro sul serio.»
«Che incorreggibile» disse il professore. «Ti ostini proprio a usare quella brutta parola. Non si usa più!»
L’uomo accanto era Paul Malloris.
«Grazie d’aver stabilito i contatti, Paul» gli disse Markham. «Nessuna notizia di Shawna?»
«Nessuna che io abbia voglia di sapere» rispose Paul con voce incolore. «Benvenuto nella Legione dei Disperati, John. Mi piace sperare che il tuo arrivo sia di buon augurio.»
Il professor Hyggens sorrise. «Paul dovrebbe essere il nostro stratega. Ma finora nessuno può dire quanto valga.» Poi presentò in fretta Markham agli altri tre individui che, come Crispin, Towne e Paul Malloris, rivestivano cariche irregolari e scombinate nell’armata stracciona dei Fuggiaschi.
«E infine» disse Hyggens «ci sono io. Ti sorprenderà, John, sentire che io sono Generalissimo dei Disadattati. Non me ne intendo di rivoluzioni, di combattimenti e di organizzazione; perciò sono stato eletto, si capisce... Per la verità, nessuno di noi ne sa molto e, prima che tu venissi in scena, non aveva nessuna importanza che i Fuggiaschi fossero guidati da un filosofo un po’ svampito. Tra parentesi, sei sicuro che non ti piaccia questo mondo meraviglioso? Sei sicuro di non poterti adattare a essere un obbediente cittadino della nostra gloriosa Repubblica?»
Markham prese la tazza fumante che gli veniva offerta e si sedette nel circolo di uomini. «Il professor Hyggens» disse «mi chiese un giorno una definizione della vita. Pensai che la risposta fosse facile, ma quando tentai di dargliela, il professore mi fece osservare che gli androidi non erano in contrasto con la mia definizione. Pensai che fosse un po’ matto, in fondo, finché non riuscii a conoscere meglio gli androidi... Se questi siano realmente vivi, nel vero senso della parola, è un problema che i filosofi» e indirizzò un sorriso ironico al professore «discuteranno senza dubbio per lungo tempo. Ma è evidente che essi si comportano proprio come se lo fossero. Sono decisi a dominare completamente l’ambiente che li circonda. Di questo ambiente facciamo parte noi esseri umani. Questa è una delle tante ragioni per cui mi trovo qui. Sono convinto che l’umanità debba lottare per sopravvivere. Sono convinto che, quanto più aspetteremo, tanto più dura sarà la lotta.»
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