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Bob Shaw: Cosmo selvaggio

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Bob Shaw Cosmo selvaggio

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Un’astronave stellare da esplorazione spedisce su un pianeta sconosciuto sei moduli di atterraggio e ne vede tornare sette. Su quel pianeta c’и chiaramente “qualcosa che non va”… Ma nelle zone piщ remote e selvagge del Cosmo, si sa, le cose non vanno mai perfettamente lisce e gli esploratori devono sempre stare in guardia, devono sempre aspettarsi di tutto. Giustamente Bob Shaw ha messo in epigrafe alla strabiliante saga dell’astronave “Sarafand” questi memorabili versi di R. L. Stevenson: “Per il Cosmo strano e selvaggio me ne vado, da eterno straniero. Il mio amore sono le tue strade e i brillanti occhi del pericolo”.

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— Credo che per oggi basti — disse Gillespie un’ora dopo, guardando l’orologio. — È l’una passata, ed è ora che andiamo a riposare.

— Direi proprio — grugnì Kessler. Tutti si alzarono, guardandosi l’un l’altro incerti.

Gillespie diede un colpo di tosse per richiamare l’attenzione. — Un’ultima cosa. Il razionamento dei liquori che abbiamo votato si applica alle riserve ufficiali della nave, non a quelle personali. Non so se mi spiego.

Si alzò subito un brusio eccitato. Gli uomini, che avevano accettato a malincuore l’austerità, si vedevano offrire la prospettiva inattesa di un’ultima sbornia, in grado di offrire loro un po’ di pace e di oblio. Coloro che non avevano riserve personali di intossicanti guardavano speranzosi quelli che notoriamente ne erano forniti, e cominciarono ad affollarsi intorno a loro con offerte di sigari e di dolci fatti in casa, senza i quali, affermavano, nessuna festa poteva riuscire. L’allentarsi della tensione, unita alla consapevolezza che la pausa sarebbe stata di breve durata, indusse i più giovani, come Rizno e Mossbake, a una rumorosa ilarità.

— Bel colpo — mormorò Surgenor a Gillespie. — Non c’è niente come i postumi di una sbronza carnevalesca per rendere attraente l’idea della quaresima.

Gillespie annuì con aria soddisfatta. — Ho una bottiglia di cognac nella mia stanza. Andiamo a dividercela?

Surgenor annuì, guardando Christine Holmes, che si era separata dagli altri e stava salendo la scaletta. Improvvisamente, rendendosi conto di dove stava andando, si scusò e la seguì in fretta. Salì i gradini due alla volta, entrò nel corridoio e la trovò vicino alla porta numero 4 con le orecchie tese. Era la stanza di Wilbur Desanto.

— Ho bussato un paio di volte — disse quando le si fermò vicino. — Non risponde.

Surgenor spalancò la porta. La stanza era quasi completamente buia, tranne che per la luce proveniente da un micro-lettore che proiettava una pagina sul soffitto. Desanto era steso sul letto, immobile, con la faccia voltata verso la parete. Surgenor accese la luce, e Desanto si sollevò su un gomito, con un sorriso forzato.

— Che c’è? La riunione è finita?

— Perché non hai risposto quando ho bussato? — chiese Christine da dietro le spalle di Surgenor.

— Credo di essermi appisolato. Ma perché tanta agitazione?

— C’è una festa in corso di sotto, se la cosa ti interessa. — Surgenor chiuse la porta, e guardò Christine, che aveva un’espressione infuriata sulla faccia.

— Scommetto che l’ha fatto apposta — mormorò duramente. — E io ci sono cascata.

— Non è il caso di metterla in questi termini; non sei cascata in un bel niente.

— Surgenor intuì che correva un rischio, ma continuò. — Credevi che avesse cercato di uccidersi, ed eri preoccupata per lui, anche se lo conoscevi appena. È un bene, Chris, dimostra che…

— Che sono ancora umana? Nonostante tutto? — La donna quasi sorrise, cercando le sigarette. — Fammi un favore, Dave, dimenticati che sono venuta nella tua stanza. Le ritrattazioni sul letto di morte non valgono un accidente.

Surgenor girò la testa, sentendo Gillespie salire le scale. — Al ed io stappiamo una bottiglia di brandy. Non vuoi…

— C’è più baldoria di sotto. — Si allontanò da lui, passò a fianco di Gillespie e scese la scaletta, aiutandosi da esperta con le braccia in modo da scendere quasi in scivolata.

— Ehi, Dave, che cosa hai in mente? — chiese Gillespie, lanciandogli un’occhiata perplessa.

— Di cosa stai parlando? — Surgenor si ricordò di come l’aveva guardato Billy Narvik dopo la loro lotta, in quello stesso corridoio, e venne assalito dall’indignazione. — Cosa ti viene in mente, Al? Ti sembra forse il mio tipo?

— Non sembra il tipo di nessuno, ma non c’è altro da queste parti.

— È tutta scena, sai. Chris ha passato dei brutti momenti, e non vuole correre il rischio che gli succeda ancora, perciò… — Surgenor preferì lasciar perdere, vedendo Gillespie alzare le sopracciglia. — Ma che ce ne stiamo a fare qui? Vogliamo far invecchiare il brandy?

Entrarono nella cabina a fianco di quella di Desanto, e Gillespie tirò fuori due bicchieri e una bottiglia nuova fiammante di brandy distillato. — Me lo tenevo per bermene un bicchierino ogni sera. Doveva durare trenta giorni, ma preferisco vederla sparire in una sera, e dimenticare le razioni.

— Ti dimenticherai anche di tutto il resto.

— E allora?

— Allora… — Surgenor gli porse il bicchiere e lo osservò trasformarsi in una sfera di sole. — Brindiamo all’amnesia.

— Che possa regnare a lungo.

I due restarono seduti in silenzio, bevendo adagio ma senza interruzioni, assaporando quella fuga dalla realtà. I ricordi più piacevoli che Surgenor aveva della sua carriera nel Servizio erano quelli di lunghe chiacchierate, che a volte duravano tutta la notte, mentre l’astronave era in orbita attorno a una stella, e gli uomini si ritrovavano insieme, uniti da un’acuta consapevolezza della loro comune umanità. Questa volta quella sensazione era ancora più accentuata. Dopo essere stata sbattuta dalle correnti e dalle tempeste dello spazio, la nave si trovava in una zona di bonaccia, in un mare nero e senza limiti. Un infinito fatto di vuoto premeva contro il suo guscio, e tutti coloro che erano a bordo sapevano che l’avventura era finita, perché in un continuum dove non esisteva niente, non poteva accadere niente. Nessuna sorpresa li attendeva, tranne che per quelle inaspettate scoperte che un essere umano può fare su se stesso, e dunque l’unica cosa da fare era concentrarsi sul proprio essere uomini, o non uomini, o più che uomini. Domani sarebbe stato difficile, perché cominciava il conto alla rovescia verso la morte, ma per il momento…

— Albert Gillespie e David Surgenor! — La voce di Aesop fece sobbalzare Surgenor dal suo stato di semi-incoscienza. — Se mi ascoltate, rispondete, prego.

Rispose Gillespie, dal momento che il suo nome era stato chiamato per primo.

— Ascolta queste parole, Aesop. Ti sentiamo. — Guardò Surgenor con occhi spalancati, posando il bicchiere.

— Le circostanze inconsuete nelle quali ci troviamo hanno portato ad alcuni mutamenti nelle mie relazioni con i membri dell’equipaggio — disse Aesop. — Come ha già fatto notare Michael Targett, io sono solo un computer, e le mie competenze sono necessariamente limitate ai miei programmi. Questa intrinseca limitazione è determinata, come abbiamo avuto modo di constatare, dall’incapacità dei programmatori di prevedere tutte le possibili circostanze. Capite quello che voglio dire?

— Certo. — Gillespie si raddrizzò. — Aesop, vorresti dire che hai fatto un errore nella valutazione di quello che è fuori dalla nave?

— Non su quello che è fuori. Ma all’interno si sta verificando un evento che non sono in grado di spiegare, e che sembra andare al di là di tutti i miei schemi di riferimento.

— Aesop, non farci stare sulle spine — intervenne Surgenor. — Che cosa è successo? Perché ci hai chiamato?

— Prima di descrivere il fenomeno, desidero chiarire la mia posizione riguardo ai rapporti con l’equipaggio. In circostanze normali gli annunci importanti li faccio a tutti simultaneamente; ma non sono in grado di stimare gli effetti psicologici di quello che sto per dire, e temo che possano essere dannosi. Voi due avete assunto una posizione di responsabilità; siete disposti ad accettare l’ulteriore responsabilità di trasmettere il mio messaggio nella forma che riterrete più adatta agli altri membri dell’equipaggio?

— L’accettiamo — dissero Surgenor e Gillespie insieme. Surgenor, che sentiva il cuore battergli forte, maledì la tendenza disumana di Aesop alla prolissità.

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