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Bob Shaw: Cosmo selvaggio

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Bob Shaw Cosmo selvaggio

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Un’astronave stellare da esplorazione spedisce su un pianeta sconosciuto sei moduli di atterraggio e ne vede tornare sette. Su quel pianeta c’и chiaramente “qualcosa che non va”… Ma nelle zone piщ remote e selvagge del Cosmo, si sa, le cose non vanno mai perfettamente lisce e gli esploratori devono sempre stare in guardia, devono sempre aspettarsi di tutto. Giustamente Bob Shaw ha messo in epigrafe alla strabiliante saga dell’astronave “Sarafand” questi memorabili versi di R. L. Stevenson: “Per il Cosmo strano e selvaggio me ne vado, da eterno straniero. Il mio amore sono le tue strade e i brillanti occhi del pericolo”.

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«Non rattristarti ripensando a sfortune passate» pensò. «Non ora».

Dieci minuti.

— Martin non mi perdonò mai. Morì nel crollo di una galleria, ma questo successe quattro anni dopo che ci eravamo separati. Perciò ti ho detto una bugia stamattina, Dave. Non avevo un marito che è morto… mi ha lasciato per quello che avevo fatto, ed è morto qualche anno dopo. Da solo.

«Stamattina?» Per un attimo Surgenor restò sconcertato. «Ma di cosa sta parlando?» Ripensò agli avvenimenti recenti, e provò una sorta di torpido stupore accorgendosi che era passato meno di un giorno da quando era uscito dall’albergo, in una mattina chiara sotto un cielo azzurro, su un pianeta lontano trenta milioni di anni-luce. «Sono come in una morsa, fra il macrocosmo e il microcosmo. Cosa succederà quando il diametro delle mie pupille sarà inferiore alla lunghezza d’onda della luce?»

Cinque minuti.

«Tu non l’avresti fatto, vero, Dave? Non avresti dato tutta la colpa a me?»

— Non hai alcuna colpa, Chris. Credimi. — Perché le parole non restassero solo parole, Surgenor la strinse più forte fra le braccia, e sentì Christine stringersi a lui. «Non è brutto come prima» pensò con stupore. «Aiuta avere qualcuno…» Nessun minuto.

Nessun secondo.

Nessun tempo.

Il primo suono della nuova esistenza fu uno scampanio.

Fu seguito dalla voce di Aesop che faceva una comunicazione generale.

— … fuori non c’è niente. La nave e tutti i suoi sistemi sono intatti, ma fuori non c’è niente. Né stelle, né galassie, ne alcun genere di radiazioni… solo il buio. Pare che abbiamo un intero continuum tutto per noi.

18

Surgenor si ritrovò a correre verso la sala di osservazione.

Provava una gioia indicibile per essere ancora vivo contro tutte le previsioni, ma la sensazione era bilanciata da un nuovo timore, non ancora ben definito, e gli sembrava assolutamente indispensabile che guardasse l’universo con i suoi occhi. Due uomini, Mossbake e Kessler, uscirono barcollando dalla sala di osservazione, con un’espressione ottusa di trionfo e di sorpresa. Surgenor passò loro a fianco e raggiunse la balconata. L’oscurità che li circondava era completa. La guardò, assorbendone l’impatto psicologico, poi si sedette vicino ad Al Gillespie.

— È stato un fenomeno istantaneo — disse Gillespie. — Il cielo sembrava lo stesso fino all’ultimissimo istante. Poi ho avuto la sensazione che le stelle cambiassero colore… poi questo. Niente!

Surgenor guardò nell’oceano di notte, scrutando in tutte le direzioni, mentre i suoi nervi ottici registravano falsi bagliori luminosi, creando e distruggendo immediatamente galassie lontane. Solo con uno sforzo di volontà riuscì a trattenersi dallo scuotere la testa in segno negativo.

— Pare che la legge della conservazione sia sempre valida — disse Gillespie quasi a se stesso. — Materia ed energia non si distruggono. Quello che entra in un buco nero esce da un buco bianco. Quello che entra in un vortice… esce in un continuum tutto per lui.

— Abbiamo solo la parola di Aesop. Dove sono le stelle che ci devono aver preceduto?

— Non guardare me, amico.

— Ascolta queste parole, Aesop — disse Surgenor. — Come fai a sapere che i tuoi sensori funzionano a dovere?

— Lo so perché me lo dicono i miei triplici circuiti di controllo — rispose Aesop.

— La triplicazione non significa un bel niente, se ogni circuito ha subito la stessa avaria.

— David, stai esprimendo opinioni su un argomento molto complesso, e sul quale, secondo il tuo dossier personale, non hai alcuna qualifica o esperienza. — La scelta di parole operata dal computer tramutò un’affermazione di fatto in un rimprovero.

— Per quanto riguarda il passaggio attraverso un vortice — rispose Surgenor ostinato — io ho tanta esperienza quanta ne hai tu. E voglio andare a vedere dagli oblò.

— Non ho niente da obiettare. Anche se la richiesta è insolita.

— Bene! — Surgenor si alzò e guardò Gillespie. — Vieni anche tu?

Gillespie annuì e si alzò. I due lasciarono la sala. Mentre salivano si unì a loro Mike Targett, che pareva intuire dove fossero diretti. Raggiunsero il primo dei ponti occupati dal computer, dove i banchi dei dati geognostici occupavano file e file di armadietti metallici, poi si arrampicarono su una scaletta metallica poco usata, che conduceva alle unità centrali di elaborazione di Aesop.

Massicce porte a tenuta stagna si aprirono su una passerella circolare che passava a fianco di una foresta di cavi multicolori, la complessa spina dorsale che connetteva il cervello della Sarafand al suo corpo. Il computer vero e proprio era ancora sopra di loro, dietro a portelli che potevano essere aperti solo dalle squadre di manutenzione. Lungo la passerella, a quattro punti equidistanti, vi era una serie di oblò circolari che permettevano una visione diretta dell’esterno. I progettisti di astronavi avevano una forte avversione a praticare buchi negli scafi pressurizzati, e nel caso della Classe Sei avevano previsto a malincuore quattro piccole finestre trasparenti in una parte della nave che poteva essere sigillata ermeticamente dagli altri livelli.

Surgenor andò all’oblò più vicino, e vi scorse solo la faccia di un uomo che lo guardava. Scrutò il suo riflesso per un minuto, cercando invano di scorgere qualcosa dall’altra parte, poi chiese ad Aesop di spegnere le luci. Immediatamente il ponte piombò nell’oscurità. Surgenor guardò fuori, e il buio era simile a un nemico in agguato.

— Non c’è niente là fuori — sussurrò Targett che era vicino a un altro oblò.

— È come se fossimo immersi nella pece.

— Posso assicurarvi — disse Aesop inaspettatamente — che lo spazio che ci circonda è più trasparente di quello interstellare. La quantità di materia per metro cubo è esattamente zero. In queste condizioni i miei telescopi potrebbero individuare una galassia distante miliardi di anni-luce… ma non ce ne sono.

— Riaccendi pure la luce, Aesop. — Surgenor resistette all’impulso di scusarsi con il computer per aver dubitato della sua parola. Si sentì sollevato quando le luci tornarono a brillare, chiudendo gli oblò coi loro riflessi.

— Be’, non siamo morti… almeno non credo… ma questa volta è ancora peggio di prima — disse Targett. Alzò le mani osservandosi le dita, accigliato. Gillespie lo guardò incuriosito. — Tremi?

— No. Non ancora. Un vecchio filosofo classico, Kant mi pare, parlò una volta di una situazione vagamente simile a questa. Diceva: immaginiamo che non esista assolutamente niente nell’universo tranne una mano umana; saremmo in grado di riconoscere se si tratta della destra o della sinistra? Secondo lui sì, e questa doveva essere la prova che vi è una direzionalità nello spazio stesso; ma si sbagliava. Speculazioni successive portarono al concetto di rotazione attraverso uno spazio a quattro dimensioni…

Targett si interruppe, e la sua faccia giovanile sembrò raggrinzirsi, dandogli un’aria da vecchio. — Oh, Gesù… che cosa faremo? — Non possiamo fare altro che conservare la calma — disse Surgenor. — Dieci minuti fa credevamo di essere finiti.

— Questa volta è diverso, Dave. Non ci sono più fattori esterni. Questa volta ci siamo solo noi.

— A proposito — disse Gillespie — sarà meglio convocare un’altra riunione, non appena la sbronza sarà passata.

— Ne vale la pena? Non abbiamo fatto altro finora, e forse è meglio che continuino a restare ubriachi.

— È questo il punto. I liquori sono cibo. Contengono molte calorie, e dovranno essere razionati, come tutto il resto.

La riunione venne convocata per mezzanotte, ora di bordo, il che lasciò a Surgenor due ore in cui pensare. Pensare alla morte: morte per fame, morte per solitudine, in un continuum nero e vuoto, morte per ipotermia spirituale. Si aggirò per la nave, invece di ritornare nella sua stanza, ma questo servì solo a moltiplicare il suo senso di disagio. Se si impegnava in qualche lavoretto, per alcuni minuti il pensiero della sua disperata condizione lo abbandonava; poi, quando il lavoro era quasi finito, una voce interiore cominciava a dirgli che era tempo di pensare di nuovo alla situazione generale, e i suoi pensieri tornavano a vorticare.

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