Bob Shaw - Cosmo selvaggio

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Cosmo selvaggio: краткое содержание, описание и аннотация

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Un’astronave stellare da esplorazione spedisce su un pianeta sconosciuto sei moduli di atterraggio e ne vede tornare sette. Su quel pianeta c’и chiaramente “qualcosa che non va”… Ma nelle zone piщ remote e selvagge del Cosmo, si sa, le cose non vanno mai perfettamente lisce e gli esploratori devono sempre stare in guardia, devono sempre aspettarsi di tutto. Giustamente Bob Shaw ha messo in epigrafe alla strabiliante saga dell’astronave “Sarafand” questi memorabili versi di R. L. Stevenson: “Per il Cosmo strano e selvaggio me ne vado, da eterno straniero. Il mio amore sono le tue strade e i brillanti occhi del pericolo”.

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— A quanto pare siamo capitati in mezzo ad una regione di spazio in contrazione. È per questo che ci sono tanti soli così vicini uno all’altro. Lo spazio fra di loro si sta restringendo. I soli stessi si stanno restringendo. Anche noi ci stiamo restringendo, Dave.

Surgenor si guardò involontariamente le mani, prima che il buon senso prendesse il sopravvento. — È assurdo. In un sistema in espansione i nostri corpi non diventano più grandi. E anche se lo facessero, non ci sarebbe nessuna differenza… — Si interruppe, vedendo che Targett scuoteva la testa.

— Ci troviamo in un ambiente diverso. Non è come se qualcuno avesse messo la marcia indietro all’intero universo. Siamo in una specie di sacca, come un diamante in una roccia, o una bolla in un fermacarte di vetro, grande qualche decina di anni-luce, e in cui tutto si sta restringendo. Noi compresi.

— Ma come facciamo a saperlo? I nostri strumenti di misura si restringeranno alla stessa velocità di quello che cerchiamo di misurare, per cui…

— Tranne i gravitoni, Dave. Il quantum di gravita è una costante universale. Anche qui.

Surgenor cercò di dare un senso a quello che stava ascoltando. — Aesop ha detto che è una variabile crescente.

— Appare come una variabile crescente. Perché stiamo diventando più piccoli, ed è questo che ha fatto saltare completamente i suoi sistemi di astronavigazione e di controllo.

Surgenor si sedette sulla sola sedia della cabina. — Se questo è vero, allora abbiamo fatto dei progressi. Basta dire ad Aesop qual è il problema…

— Non c’è tempo, Dave. — Targett si stese sul letto, guardando il soffitto. Parlò con voce calma, quasi sognante: — Fra poco più di due ore saremo tutti morti.

17

Una voce irata di donna fu seguita dal rantolo rauco di un uomo, e da un rumore irregolare di passi. Surgenor corse alla porta della sua cabina, l’aprì e vide Billy Narvik e Christine Holmes che lottavano, nel corridoio, a poca distanza da lui. La donna aveva la camicetta semislacciata e la faccia stravolta dalla collera. Narvik, che la teneva dal di dietro, aveva un alone scuro attorno alla bocca e i suoi occhi, sotto le palpebre tremule, mostravano solo il bianco. Sulla faccia aveva un’espressione estatica.

— Lasciala andare, Billy — ordinò Surgenor. — Lo sai che non è una buona idea.

— Posso sbrigarmela da sola -disse Christine con voce monotona, amara. Stava prendendo a calci le caviglie di Narvik, sistematicamente e con forza, ma l’uomo sembrava non accorgersene. Surgenor lo raggiunse e gli afferrò i polsi, cercando di staccargli le mani da Christine.

Rendendosi conto improvvisamente di una terza persona, Narvik spalancò gli occhi. La sua espressione si trasformò alla vista di Surgenor. — Lasciami fare, Dave — disse ansimando. — La voglio, e devo… Non resta altro.

Christine riprese i suoi sforzi per liberarsi, mentre Surgenor tirava con maggior forza i polsi di Narvik. L’uomo, benché più piccolo, era sorprendentemente forte, e per spezzare la sua presa Surgenor dovette piegarsi sulle ginocchia e abbassarsi in modo da poter esercitare maggior forza. Nel fare questo la sua guancia andò a sfiorare quella di Christine, e coi fianchi premette contro quelli di lei. Mentre quella intimità si prolungava per parecchi secondi, il trio rimase in un equilibrio teso, poi le braccia di Narvik cominciarono ad allentarsi.

— Dave, Dave! — cominciò con voce implorante Narvik, mentre era finalmente costretto a lasciare la presa. — Tu non capisci… sono anni che non riesco a…

Si interruppe. Christine era scivolata fuori dall’abbraccio, si era girata e contemporaneamente gli aveva dato uno schiaffo sulla bocca. Surgenor lasciò i polsi e l’uomo indietreggiò fino alla parete curva del corridoio. Si premette il dorso della mano sulla labbra, spostando lo sguardo accusatore da Surgenor a Christine.

— Ho capito! Ho capito! — Narvik fece una risatina isterica. — Ma sono solo due ore. A cosa servono due ore? — Si allontanò in direzione della scaletta, con passo ridicolmente dignitoso.

— Non avresti dovuto colpirlo — disse Surgenor. — Si vede che ha preso qualche droga.

— Questo lo autorizza a violentarmi? — Christine cominciò ad allacciarsi la camicetta.

— Non ho detto questo. — Surgenor la guardò con un senso di frustrazione, oscuramente irritato con lei perché era rimasta quello che era, perché non era riuscita a trasformarsi in un qualche modo indefinibile che l’avrebbe aiutato a vedere uno scopo nella vita o un significato nella morte. Gli era sembrato che avendo un termine di due ore segnato alla loro esistenza, fosse dovere dei membri dell’equipaggio trascendere la loro vecchia personalità, e rendere così, sia pure in modo simbolico, il breve tempo che restava loro degno di essere paragonato ai decenni futuri che venivano loro negati. Sapeva che la sua era una tipica reazione dovuta alla paura, che il suo subconscio, in uno sforzo di negare i fatti, aveva inventato dei falsi obiettivi a breve scadenza; ma una parte di lui si aggrappava a quell’illusione, e desiderava che Christine volesse essere quello che poteva essere.

— Torno nella mia stanza — disse lei. — E questa volta starò bene attenta che la porta sia chiusa.

— Sarebbe meglio essere con qualcuno.

La donna scosse la testa. — Tu fai a modo tuo; io farò a modo mio.

— Certo. — Surgenor stava pensando a qualcosa da dire, quando sentì delle grida confuse provenire dalla sala mensa. Provò un senso improvviso di sorpresa e di allarme. La forza dell’abitudine lo fece correre verso la scaletta, che scese precipitosamente incespicando. Il gruppo di uomini che aveva scelto di attendere l’ultima ora ubriacandosi, era sparso in vari punti della sala, alcuni di loro già inebetiti, ma tutti tenevano gli occhi fissi sull’imboccatura della scaletta metallica che conduceva all’hangar.

Surgenor raggiunse il pozzetto, si sporse dalla ringhiera e vide il corpo di Billy Narvik steso sul pavimento. Era in una posizione innaturale, immobile. Il solo movimento veniva da due rivoletti di sangue che gli uscivano da sotto il corpo, come tentacoli furtivi.

— Ha cercato di volare — disse qualcuno. — Giuro che credeva di poter volare.

— Anche questa è una via d’uscita — disse un altro. — Ma io preferisco aspettare.

Surgenor scese la scaletta e si inginocchiò vicino al corpo di Narvik, trovando conferma di quello che già sapeva. La gravità artificiale della Sarafand era inferiore a un G, ma l’impatto col pavimento metallico era stato sufficiente a spezzare il collo di Narvik. Surgenor volse lo sguardo ai moduli nei loro stalli, poi alle facce visibili nel pozzo delle scale.

— C’è qualcuno che vuol darmi una mano a spostarlo? — chiese. — È morto.

— Non ne vale la pena — disse Burt Schilling. — Non resterà lì a lungo.

Gli uomini appoggiati alla balaustra si allontanarono. Surgenor esitò. Sapeva che Schilling aveva ragione, ma non voleva lasciare i resti di un essere umano stesi sul pavimento dell’hangar come i rottami di una macchina. Afferrò Narvik per i polsi e lo trascinò verso il ripostiglio ricavato nella massiccia colonna che formava la spina dorsale della nave. Quando aprì la porta, le luci si accesero automaticamente. Nel pavimento era incassata una piastra circolare di metallo con incisi dei raggi, che indicava il centro di gravita della nave e i suoi assi maggiori, ad uso delle squadre di manutenzione. In quel momento, a Surgenor parve che fosse un simbolo cerimoniale adatto al morto. Trascinò il corpo nello stanzino e richiuse la porta.

— Ascolta queste parole, Aesop — disse.

— Ti ascolto, Dave. — La voce arrivava dalla penombra.

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