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Bob Shaw: Cosmo selvaggio

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Bob Shaw Cosmo selvaggio

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Un’astronave stellare da esplorazione spedisce su un pianeta sconosciuto sei moduli di atterraggio e ne vede tornare sette. Su quel pianeta c’и chiaramente “qualcosa che non va”… Ma nelle zone piщ remote e selvagge del Cosmo, si sa, le cose non vanno mai perfettamente lisce e gli esploratori devono sempre stare in guardia, devono sempre aspettarsi di tutto. Giustamente Bob Shaw ha messo in epigrafe alla strabiliante saga dell’astronave “Sarafand” questi memorabili versi di R. L. Stevenson: “Per il Cosmo strano e selvaggio me ne vado, da eterno straniero. Il mio amore sono le tue strade e i brillanti occhi del pericolo”.

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— Billy Narvik è caduto dalle scale dell’hangar un paio di minuti fa. L’ho esaminato. È morto. Ho messo il corpo nello stanzino degli attrezzi dell’hangar, e ti chiedo di sigillare la porta.

— Se è questo che vuoi, non ho obiezioni. — Si udì il suono soffocato dei chiavistelli elettronici che si chiudevano, diretti dall’unità centrale di Aesop, molto più in alto. Surgenor ritornò di sopra, e ignorando parecchie offerte di fermarsi a bere, attraversò la mensa e salì sul ponte superiore. Trovò Christine in cima alle scale, con la sigaretta in bocca e una mano sui fianchi, come se fosse in posa per una fotografia. Ancora una volta, sentì un moto irrazionale di rabbia.

— Hai sentito cos’è successo? — chiese, cercando di tenere un tono calmo.

— Più o meno. — Lo guardò impassibile, attraverso una nuvola di fumo.

— Non dovrai più preoccuparti di Billy Narvik.

— Non me ne sono mai preoccupata.

— Meglio per te. — Surgenor le passò a fianco, andò nella sua stanza e chiuse la porta col chiavistello. Si buttò sul letto, e immediatamente la sua mente venne attirata in un vortice di fantasticherie confuse.

Prima o poi, lo sapeva, tutti devono giocare la loro ultima partita, e nei rari momenti di malessere spirituale aveva cercato di immaginare come sarebbe stato il suo turno. La vita nel Servizio Cartografico non era particolarmente pericolosa, ma offriva alla ruota del caso una molteplicità di modi per fermarsi e far scattare la combinazione che segnava la fine di un giocatore. Si era immaginato strani guasti meccanici al suo modulo di esplorazione; il rischio di contrarre malattie esotiche; l’ironica possibilità di avere un incidente stradale sulla Terra… ma mai, neppure in un incubo, aveva previsto qualcosa di simile a quello che lo attendeva.

Dopo la conversazione con Mike Targett si era ritirato nella sua cabina e aveva parlato in privato con Aesop. Nella solitudine, lontano dalle distrazioni che gli sarebbero venute dalla presenza degli altri, era stato in grado di assorbire la notizia che Aesop stava elaborando una serie di leggi fisiche per il loro microcosmo. Le leggi erano ancora poche, data la scarsità di dati, ma la terza era quella più importante per loro. Affermava, semplicemente, che la velocità alla quale ciascun corpo si restringe all’interno di un vortice è inversamente proporzionale alla sua massa.

In termini pratici, significava che un sole avrebbe impiegato molti milioni di anni per raggiungere dimensioni zero, mentre lo stesso destino sarebbe toccato a un corpo delle dimensioni di un’astronave in meno di un giorno. Le equazioni esponenziali derivate da Aesop mediante successive misurazioni gravitoniche indicavano che alle 21.37 la Sarafand e tutto il suo equipaggio avrebbero cessato di esistere.

Surgenor fissò il soffitto della sua stanza, cercando di capire quello che gli aveva detto Aesop.

L’orologio sulla parete segnava le 20.05, il che significava che restavano circa una novantina di minuti. Significava inoltre, secondo i calcoli di Aesop, che la Sarafand , un tempo una piramide di metallo alta ottanta metri, era ridotta alle dimensioni di un giocattolo. Il pensiero che la nave ormai non era più grande di un fermacarte indignava Surgenor, e il corollario che il suo stesso corpo era stato ridotto in proporzione, lo rendeva nello stesso tempo terrorizzato e incredulo.

Continuava a ripetersi che doveva esserci un limite a quello che poteva essere dedotto da un paio di misurazioni astronomiche. Dopo tutto, quali erano i fatti concreti su cui basarsi? La luce delle stelle dell’ammasso mostrava un certo spostamento verso il blu, ed Aesop (un computer non infallibile, come dimostrava proprio la loro presenza lì) diceva che questa era la prova che le stelle si muovevano verso l’interno. Ma era poi vero? Non era forse un fatto che nessuno finora aveva realmente misurato la velocità di una stella o di una galassia?, e che l’intero edificio concettuale di sistemi in contrazione o in espansione dipendevano dall’interpretare lo spostamento verso il rosso o verso il blu come un effetto Doppler? Qualcuno aveva mai provato, al di là di ogni dubbio, che questa interpretazione fosse corretta?

Surgenor fece un sorriso privo di allegria, accorgendosi di quanto fosse inutile il suo tentativo di misurarsi, armato delle sue conoscenze astronomiche superficiali, con le potenzialità enormi dei banchi mnemonici e delle unità di elaborazione di Aesop. Tutto quello che aveva provato era che aveva tanta paura di ciò che lo attendeva da lasciarsi andare alle fantasie. La realtà era che stava nel Servizio da troppo tempo e aveva viaggiato troppo lontano, che non aveva più tempo, che era troppo tardi per smettere di essere uno straniero volontario, che non avrebbe mai compiuto i viaggi veri e significativi, quelli fatti da coloro che restano abbastanza a lungo in un posto per conoscere l’avvicendarsi delle stagioni, che era completamente solo e lo sarebbe stato per tutto il resto della sua vita, che era stato tutto uno spaventoso errore, e che ormai non poteva più farci niente…

Le cifre rosse dell’orologio digitale continuavano a scorrere, rosicchiando la vita di Surgenor, e lui le guardava come affascinato. Di tanto in tanto, una risata rauca o il rumore di un bicchiere che si rompeva lo raggiungeva dalla mensa, ma la loro frequenza diminuì, mentre il tempo concesso passava e l’alcool faceva effetto. Alcuni avevano deciso di trascorrere la loro ultima ora nella sala di osservazione. L’idea di unirsi a loro lo tentò parecchie volte, ma questo avrebbe significato prendere una decisione e metterla in pratica, e quello sforzo sembrava troppo grande. Un torpore pietoso si era impadronito di lui, trasformando le sue membra in pezzi di piombo privi di sensazioni, rallentando i suoi processi mentali sino al punto che gli ci voleva un minuto intero per completare un solo pensiero.

«Ho… visto… troppe… stelle».

Il bussare sommesso alla porta gli parve qualcosa che appartenesse a un altro luogo e a un altro tempo. Ascoltò senza comprendere, poi guardò l’orologio. Restavano venti minuti. Si alzò con uno sforzo, raggiunse la porta e l’aprì con dita incerte. Christine Holmes era in piedi nel corridoio, che lo guardava con occhi pieni di pena.

— Credo di aver fatto un errore — disse a bassa voce. — È tutto troppo…

— Non occorre che tu dica niente. Va tutto bene. — Spalancò la porta, facendola entrare, poi la chiuse di nuovo. Quando si voltò, Christine era in mezzo alla stanza, con la schiena rivolta verso di lui, le spalle curve. Andò da lei, e intuendo in qualche modo la cosa giusta da fare, la prese fra le braccia e la mise sul letto. Lei continuò a guardarlo, mentre le puliva la camicetta e i pantaloni dalla cenere e le si stendeva a fianco, prendendola fra le braccia. La baciò una volta, gentilmente, senza passione, prima di posare la testa sul cuscino. Lei sollevò un ginocchio in modo da appoggiarglielo sulla coscia. Nella stanza non si sentiva nessun rumore.

Restavano quindici minuti.

Christine sollevò la testa e lo guardò, e questa volta Surgenor trovò difficile scorgere tracce di durezza sulla sua faccia. — Non te l’ho mai detto. Mio figlio è morto appena prima di nascere. Ero in un cantiere su Newhome. Il dottore non c’era. Sentivo il bambino morire, ma non potevo aiutarlo. Era qui, dentro di me, e non potevo fare niente per aiutarlo.

— Mi dispiace.

— Grazie. Non l’ho mai detto a nessuno, vedi. Non sono mai riuscita a parlarne.

— Non è stata colpa tua, Chris. — Le fece appoggiare la testa sulla sua spalla.

— Se solo me ne fossi stata a casa. Se solo avessi aspettato Martin a casa.

— Non potevi saperlo. — Surgenor pronunciò la formula rituale di assoluzione senza alcun imbarazzo, poiché capiva che l’assoluta unicità di ogni essere umano e di ogni circostanza umana dava alle parole un nuovo significato. — Non pensarci.

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