Hasson si scosse, si avvicinò all’orlo della tromba e guardò giù in quella profondità sempre più remota. Fissò il grande disco centrale, nero, oltre il quale lo aspettava il mondo, e capì che non era affatto un occhio, che suo padre non lo stava guardando, che nessuno lo stava guardando.
Era solo. Toccava soltanto a lui decidere se preferiva morire, o nascere una seconda volta.
Decise rilassando i muscoli, lasciandosi cadere in avanti, precipitando nell’ignoto come se si trattasse di un sogno.
Quattro secondi.
Stando alla normale scala cronologica dell’uomo, quattro secondi sono un periodo brevissimo, ma Hasson riceveva impressioni sensoriali incomparabilmente vivide a velocità accelerata, e per lui tutti gli orologi si fermarono, i cieli smisero di ruotare.
Ebbe tutto il tempo di scrutare i campi di battaglia fiammeggianti che erano i piani dell’hotel, di udire i rumori possenti generati dal fuoco di piano in piano, di sopportare il senso di vuoto allo stomaco, sempre più forte, che gli diceva che la sua velocità andava aumentando in risposta al richiamo mortale e silenzioso della Terra, di provare l’alternarsi di luce e ombra, di caldo e freddo relativo, di pensare, di progettare, di sognare, di gridare…
E quando, finalmente, nell’oscurità trafitta dal mormorio del vento, con l’hotel che si allontanava sopra la sua testa come un sole nero, sentì che il corpetto antigravitazionale lo risollevava, riportava ordine in quel caos gemebondo, era davvero nato per la seconda volta.
Al Werry ed Henry Corzyn vennero sepolti in due tombe vicine, sul pendio assolato, esposto a sud, di un cimitero nei pressi di Tripletree.
Hasson, originario di un’isola dove la cremazione era antica abitudine, non aveva mai assistito a una sepoltura tradizionale. Le cerimonie funebri viste in televisione lo avevano preparato a un grande dispiego di tristezza, ma la realtà dei fatti si rivelò stranamente tranquilla. Il ritorno alla terra gli comunicò una sensazione di giustizia che lo lasciò, se non proprio confortato, in qualche misura riconciliato con le ragioni della vita e della morte.
Durante la cerimonia si tenne in disparte dal gruppo di parenti stretti, perché non desiderava parlare dei suoi rapporti con Werry a nessuno in particolare. Sybil Werry, giunta da Vancouver, restò vicina al figlio. Era una donna minuta, nera di capelli, e la sua corporatura fragile faceva sembrare alto, sorprendentemente maturo, il ragazzo al suo fianco. Theo Werry tenne la testa sollevata, non cercò di nascondere le lacrime, e seguì col bastone a sensori l’interramento della bara del padre. Guardando il ragazzo, Hasson poteva già vedere sulla sua faccia i lineamenti dell’uomo che sarebbe diventato.
May Carpenter e sua madre, discretamente velate, facevano parte di un gruppo separato che comprendeva il dottor Drew Collins e altra gente ignota ad Hasson. May e Ginny erano uscite di casa qualche ora prima dell’arrivo di Sybil, trasferendosi in un’altra zona di Tripletree.
Non lontano da loro c’erano le figure disperate di Victor Quigg e Oliver Fan, entrambi irriconoscibili nell’abito nero da cerimonia. E dietro tutti, ad accomunarli su uno sfondo generale, la città era linda e indifferente come sempre, sospesa sotto i colori brillanti delle autostrade aeree. Hasson vedeva tutto con chiarezza estrema, minuziosa: la sua memoria avrebbe rivissuto molte volte quella scena.
Appena tornato in casa si ritirò nella sua stanza. Il sole batteva sulle tendine chiuse, immergendo tutto in un color pergamena. Tirò fuori le sue cose e, lavorando con calma concentrazione, cominciò a infilarle in un gruppo di contenitori da volo. Lo spazio non bastava per tutto quello che le sue valigie contenevano, ma non ebbe esitazioni a scegliere le cose più necessarie e ad ammassare le altre sul letto. Stava lavorando da circa cinque minuti quando udì dei passi sul pianerottolo, e Theo Werry entrò nella stanza. Il ragazzo si fermò un attimo, tastando il pavimento col bastone a sensori, poi si avvicinò ad Hasson.
— Te ne vai davvero, Rob? — gli chiese, con espressione tesa. — Voglio dire adesso, oggi pomeriggio? Hasson continuò a mettere via la roba. — Se parto adesso, arrivo alla costa occidentale prima di sera.
— E il processo? Non dovresti aspettare?
— Ho perso interesse per i processi — rispose Hasson. — Devo partecipare a un altro processo m Inghilterra, e non m’interessa più nemmeno quello.
— Ti cercheranno.
— Il mondo è grande, Theo, e io voglio scorrazzare in ogni direzione. — Hasson si fermò, per rendere il doveroso omaggio alla presenza del ragazzo. — È una frase di Stephen Leacock.
Theo annuì, poi sedette sull’orlo del letto. — Lo leggerò, un giorno o l’altro.
— Certo. — Un improvviso risveglio di partecipazione umana indusse Hasson a chiedersi se non pensasse troppo a se stesso. — Sei sicuro di non volerti fare operare? Nessuno t’impedirebbe di far operare almeno un occhio.
— Sono sicuro, grazie. — Theo parlava con la voce di un adulto. — Posso aspettare un paio d’anni.
— Se pensassi che ti serve…
— È il minimo che io possa fare. — Theo sorrise e si alzò, sciogliendo Hasson da ogni obbligo. — Me ne vado anch’io, sai. Ho parlato con la mamma stanotte, e lei dice che ha un sacco di posto per me a Vancouver.
— Magnifico — disse Hasson, imbarazzato. — Senti, Theo, un giorno o l’altro vengo a trovarti. Okay?
— D’accordo. — Il ragazzo sorrise di nuovo, troppo cortese per far vedere che non credeva alla promessa, strinse la mano di Hasson e uscì dalla stanza.
Hasson lo guardò scomparire, poi tornò a riempire i contenitori con l’essenziale per un lungo volo. Non aveva in mente nessuna destinazione precisa. Sentiva solo la necessità istintiva di viaggiare a sud e a ovest, d’iniziare la sua nuova vita stagliandosi contro la stupefacente immensità dell’Oceano Pacifico: doveva recuperare gli anni persi nel provincialismo, nel conformismo, perdendosi nelle zone che il tempo e la storia non avevano ancora sfiorato. Pochi minuti dopo, terminati i preparativi, accantonati i rimorsi, si alzò nell’aria blu, tranquilla, di Tripletree, e iniziò una lunga passeggiata in cielo.
Un autore per tutte le stagioni
di Vittorio Curtoni
Bob Shaw è uno di quegli autori che meriterebbero, e da parecchi anni, molta più fortuna di quella che hanno. Purtroppo per lui, non ha mai scritto grandi best-seller internazionali; nessun regista di grido ha mai tratto un film dai suoi libri; non è in linea con l’attuale tendenza al gonfiaggio dei romanzi, cioè non è il tipo capace di scrivere cinquecento cartelle basate su un’idea che, al massimo, potrebbe reggere un racconto lungo… È, per sua sfortuna (e per grande fortuna dei suoi cinque lettori), un narratore autentico.
Di conseguenza, i suoi libri hanno dimensioni ragionevoli, le sue storie conservano un’esemplare coerenza dalla prima all’ultima parola; e i suoi personaggi hanno un sapore talmente vero da risultare, in più di un’occasione, sgradevoli nella loro nuda realtà umana.
Nato a Belfast nel 1931, laureato in ingegneria meccanica, pubblica il primo racconto nel 1954, ma solo dal 1975 decide di diventare scrittore a tempo pieno. La sua ormai ricca bibliografia comprende romanzi giustamente celebri (all’interno dell’universo degli appassionati di fantascienza, se non altro) come Altri giorni, altri occhi (1972), basato sull’idea del “vetro lento”, un vetro che imprigiona le radiazioni luminose e le restituisce lentamente, fissando quasi per l’eternità le immagini del passato; la trilogia di Orbitsville , iniziata nel 1975, affascinante esplorazione di un mondo artificiale di dimensioni gigantesche, costruito come un guscio attorno alla propria stella; e Luna, maledetta luna , impietosa cronaca dello scontro tra la specie umana e una razza superiore di immortali.
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