Bob Shaw
Antigravitazione per tutti
Il viaggio in macchina verso Chivenor era stato lungo e faticoso. Col passare dei chilometri era peggiorato il dolore alla schiena di Hasson, e con l’aumentare del dolore si era deteriorato il suo stato d’animo. Dapprima timori da poco, accenni di depressione che chiunque avrebbe provato passando attraverso una serie di città e villaggi dove le gelide piogge di marzo sembravano aver cancellato ogni attività, ogni segno di vita comunitaria. Però, quando raggiunsero la costa nord del Devon, Hasson si sentiva più abbattuto del normale, e quando la macchina superò una salita, regalando ai tre passeggeri la vista dell’estuario del Taw, capì di essere terrificato dal viaggio che lo attendeva.
«Com’è possibile?» pensò, incapace di far quadrare le sue sensazioni con quelle che avrebbe provato, in circostanze simili, sei settimane prima. «Mi offrono un viaggio gratis in Canada, tre mesi di vacanza a stipendio pieno, tutto il tempo che mi occorre per riposare e riprendermi…»
— Io continuo a pensare che ci sia qualcosa di giusto nell’idea degli idrovolanti — disse Colebrook, il medico della polizia che sedeva sul sedile posteriore con Hasson. — Il concetto di volare sul mare con un’imbarcazione, di usare come punto d’atterraggio i quattro quinti del globo… Mi sembra naturale, se capisci quello che voglio dire: tecnologia e natura che procedono mano nella mano.
Hasson annuì. — Capisco dove vuoi arrivare.
— Ma guardali. — Un gesto della mano grassoccia, forte, di Colebrook abbracciò la striscia d’acqua blu e gli idrovolanti, che sembravano disposti a caso nel cielo. — Uccelli d’argento, come direbbero i nostri cugini polinesiani. Lo sai perché non li dipingono?
Hasson scosse la testa, cercando d’interessarsi alla conversazione del medico. — Non ne ho idea.
— Il fattore peso. Motivi economici. Il peso della vernice sarebbe pari al peso di un passeggero in più.
— Sul serio? — Hasson sorrise, depresso, e vide scomparire dalla faccia di Colebrook l’entusiasmo infantile, sostituito da un’aria di preoccupazione professionale. Si maledisse per non essersi sforzato di coprire meglio le sue sensazioni.
— Problemi, Rob? — Colebrook si girò di lato per scrutare più da vicino il suo paziente. Sul suo vestito, all’altezza dello stomaco, si crearono pieghe in diagonale. — Come stai?
— Un po’ stanco. Dolori e indolenzimento generale. Ma sopravviverò.
— Non parlavo di questo. Oggi hai preso il Serenix?
— Ecco… — Hasson rinunciò al tentativo di mentire. — Non mi piace mandare giù pillole.
— Che cavolo c’entra? — chiese Colebrook, spazientito. — Nemmeno a me piace lavarmi i denti, ma se smetto mi procuro un sacco di guai e una bocca sdentata. Per cui mi lavo i denti.
— Non è la stessa cosa — protestò Hasson.
— È esattamente la stessa cosa, amico mio. Il tuo sistema nervoso ti farà vedere le stelle per un paio di mesi, forse di più, ma il fatto che una cosa sia naturale non significa che bisogna sopportarla. Non danno medaglie per questo, Rob. Non c’è la Croce al Dolore o il Diploma di Depressione…
Hasson alzò un dito. — A me va bene, dottore. Mi piace così.
— Butta giù un paio di quelle capsule, Rob. Non fare il cretino. — Colebrook, che aveva troppa esperienza per permettersi di restare sconvolto da un paziente recalcitrante, si tese in avanti e batté sulla spalla del capitano della polizia aerea, Nunn. Il medico si sentiva di nuovo espansivo. — Perché non ce ne andiamo tutti in Canada, Wilbur? Un po’ di ferie ci farebbero bene. Nunn era quasi sempre rimasto al volante da Coventry, e adesso dava segni di stanchezza. — Alcuni di noi sono indispensabili — disse, rifiutando di lasciarsi coinvolgere dallo scherzo. — Comunque, per i miei gusti è troppo presto. Preferisco aspettare che sgombrino il corridoio Islanda-Groenlandia.
— Ci vorranno mesi.
— Lo so, ma alcuni di noi sono indispensabili. — Nunn appoggiò sul volante tutto il peso degli avambracci, facendo chiaramente intendere che non aveva voglia di parlare. Il cielo si era schiarito a un blu asettico, ma il terreno era ancora umido e le gomme dell’auto fischiavano sull’asfalto della discesa. Stavano scendendo verso il campo di volo e terminal per idrovolanti di Chivenor. Nunn continuò a guidare veloce, con estrema concentrazione. L’estuario scomparve dietro una fila di sempreverdi gocciolanti d’acqua.
Hasson, terribilmente a disagio sul sedile posteriore, fissò la nuca del suo superiore. Sarebbe stato meglio se nessuno avesse accennato allo sgombero dei corridoi aerei. Il suo volo doveva partire entro poco meno di un’ora, e l’ultima cosa cui voleva pensare era la possibilità di andarsi a scontrare coi corpi umani che forse fluttuavano tra le nubi basse e la nebbia che spesso oscurava le linee aeree dell’Atlantico.
Nel mondo occidentale, nessuno aveva un’idea precisa di cosa succedesse in ampie zone del territorio dell’emisfero orientale, dalla Nuova Zemlja alla Siberia, ma ogni inverno una bufera rarefatta e lenta di corpi congelati, tenuti in aria dal corpetto AG, antigravità, si abbatteva sul polo, creando seri problemi al traffico aereo fra l’Inghilterra e l’America del Nord.
L’opinione generale era che si trattasse di contadini asiatici, ignari dei pericoli di un balzo anche ad altitudini modeste nel clima invernale, oppure vittime di improvvise variazioni climatiche, congelati senza nemmeno avere la possibilità di capire cosa stesse succedendo. Un gruppo isterico, piccolo ma rumoroso, sosteneva che si trattasse di prigionieri politici deliberatamente abbandonati alle correnti aeree per danneggiare, anche in piccola misura, il flusso dei commerci occidentali. Hasson aveva sempre ritenuto quell’idea indegna della sua attenzione, e il fatto che in quel momento gli tornasse in mente era un altro indice del peggiorare del suo stato di salute. Infilò la mano nella tasca della giacca e la chiuse sulla scatola delle capsule Serenix, per assicurarsi di averle a disposizione.
Pochi minuti dopo la macchina raggiunse il campo di volo e lo aggirò, puntando verso i moli degli idrovolanti. I lunghi, argentei alettoni degli scafi spuntavano qua e là, al di sopra delle banchine spartiacque e degli uffici galleggianti. Parecchi uomini, in uniformi contrassegnate da scritte fosforescenti, volavano tra le banchine e i velivoli ancorati più in là lungo l’estuario. Al limite della visuale di Hasson, somigliavano al continuo agitarsi di macchioline colorate.
Nunn fermò la macchina in un parcheggio all’esterno della rete che delimitava l’area di decollo. Era il comandante del distretto di Hasson, per cui il lavoro sotterraneo per far scomparire Hasson dal paese e trovargli un posto dove potesse restare tre mesi in perfetto anonimato era toccato quasi tutto a lui. Non esistevano procedure sperimentate per nascondere e proteggere testimoni-chiave che potevano essere in pericolo di vita, e il capitano Nunn aveva avuto parecchi guai a trovare un ospite sicuro per Hasson in un altro paese. Alla fine aveva raggiunto un accordo con un ufficiale della polizia canadese, che anni prima era stato ospitato per un viaggio d’istruzione dalla polizia di Coventry. Nunn era un uomo che odiava tutto quello che sconvolgeva la routine amministrativa, e adesso era ansioso di togliersi Hasson dai piedi.
— Noi non entreremo con te, Rob — disse, spegnendo il motore. — Meno ci vedono assieme, meglio è. È inutile correre rischi.
— Rischi! — sbuffò Hasson, irritato da quella che per lui era una precauzione inutile. — Quali rischi? Sullivan è un delinquente ma è anche un uomo d’affari, e sa che per lui sarà finita se comincia a uccidere dei poliziotti.
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