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Bob Shaw: Antigravitazione per tutti

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Bob Shaw Antigravitazione per tutti

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Antigravitazione: recentissima scoperta che consente a chiunque, previo allacciamento di un semplice giubbotto, di vincere l’attrazione terrestre e librarsi in volo. Il sogno dell’umanità si è finalmente realizzato? Abbiamo infranto, per cosi dire, l’ultima barriera? Niente paura, i guai non sono finiti nemmeno lassù, e le vie del cielo possono rivelarsi più micidiali di quelle della terra. Ce lo ricorda questo magistrale romanzo dell’inglese Bob Shaw, un’utopia in nero che turberà per molto tempo i sonni dei nostri lettori con una dose di cinismo e violenza quale può permettersi solo la grande fantascienza.

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— Quella era un’altra bomba — annunciò, da esperto. — Attenti ai vetri!

Hasson fuggi con gli altri e si rifugiò dietro un’autopompa. Dopo un intervallo sorprendentemente lungo ci fu un tramestio, un sussurrare breve e spezzato sull’erba lì attorno. Hasson tornò al monitor televisivo appena cessato l’allarme. Il fuoco che aveva accompagnato l’esplosione indicava che la bomba era scoppiata al primo piano, ma voleva accertarsi che Al Werry fosse passato indenne tra i frammenti di vetro sparpagliati dal vento.

Cec, il capo tecnico, accese un microfono. — Terry, guarda che dovrebbe arrivare Al Werry. Ha una lancia termica. Cercherà di entrare da una delle finestre in alto. Ne ricaveremo del buon materiale, per cui stagli dietro. Chiaro?

— Chiaro, Cec — rispose Terry Franz, e l’immagine sul monitor cambiò in fretta. La telecamera si puntò su Werry, che per un attimo si stagliò contro l’inferno di fuoco del primo piano e poi raggiunse gli abissi più bui dei piani superiori. Hasson provò un assurdo nodo alla gola quando si accorse che Werry, contravvenendo ai regolamenti, aveva in testa il suo berretto al posto dell’elmetto.

Werry si fermò a circa cinque metri di distanza da una finestra al quarto piano ed estrasse la pistola. Puntò e fece fuoco, e la telecamera, con la sua superba capacità di ripresa, mostrò il buco che si era aperto in uno dei pannelli quadrati. Werry continuò a sparare e a colpire lo stesso punto, sino a far saltare il vetro. Poi infilò la pistola nella fondina e manovrò i comandi della lancia termica, facendone spuntare all’estremità una lama di luce che brillava come un diamante. Senza esitare, Werry si allontanò ancora un poco dal muro dell’hotel, salendo leggermente di quota. I fari delle macchine a terra divennero visibili sotto di lui, minuscole fiammelle di candela.

Werry mosse un comando sulla cintura e ondeggiò verso la finestra. Arrivato nel raggio del campo di gravità del muro, cominciò a cadere, ma aveva calcolato tutto alla perfezione: riuscì a infilare il braccio sinistro nell’apertura che aveva creato. I suoi piedi cercarono un punto d’appoggio sulle sbarre orizzontali fra un pannello e l’altro. Trovò l’appoggio, si tese in avanti e avvicinò la lancia termica alla finestra. La lama di fuoco perforò senza difficoltà metallo e vetro, tracciando una scia arancione. Attento a non perdere l’equilibrio, Werry cominciò ad allargare l’incisione. Le correnti aeree gonfiavano la sua uniforme. Lo stomaco di Hasson era in preda a una nausea gelida, terrificante.

Hasson voltò la testa, chiedendosi se avrebbe vomitato sul serio, poi si controllò: aveva notato un movimento improvviso nell’oscurità, davanti alla figura di Werry. Per un attimo apparve un uomo in tuta da volo. La sua faccia era una macchia pallida, triangolare; il braccio destro era teso in avanti. Hasson urlò quando Al Werry cadde all’indietro dalla finestra, mentre la lancia termica gli sfuggiva di mano e si perdeva nella notte. Werry cadde per qualche metro, poi la spinta laterale lo fece uscire dal campo del muro, e il suo corpo prese a fluttuare sui venti notturni, con braccia e gambe che si agitavano debolmente, disordinatamente. Il suo berretto cadde nel buio, come un uccello fuggitivo.

La minacciosa caverna rettangolare della finestra era di nuovo vuota.

Per Hasson, quello che seguì fu un periodo di confusione terribile. Si accorse solo vagamente che Victor Quigg balzava verso l’alto, estraendo dal contenitore al polso una rete di plastacciaio. Attorno a lui gridavano degli uomini, ma le loro voci erano stranamente lontane. Miriadi di puntini luminosi veleggiavano nella notte. Quigg riapparve, e ora pareva molto vecchio. Trascinava una forma inerte verso cui si tesero decine di mani, e la forma arrivò a terra e riacquistò un peso, si distese sull’erba.

D’improvviso Hasson era inginocchiato accanto a Werry, fissava con orrore stupefatto il foro aperto dalla pallottola nella spalla sinistra del poliziotto. La ferita era appena sotto l’ascella, per cui sembrava relativamente innocua, il tipo di ferita che al personaggio di un olodramma avrebbe strappato solo una smorfia, ma tutta la parte sinistra della giacca di Werry era inzuppata di sangue, rossa come un fegato vivo. La faccia di Werry era talmente pallida da sembrare quasi fosforescente. Il suo sguardo incerto si puntò su Hasson, le labbra cominciarono a muoversi. Hasson si chinò in risposta a quella preghiera che non udiva.

— Finisce tutto sulle tue spalle — mormorò Werry. — È buffo che tutto…

— Non parlare — ordinò Hasson. — Non tentare di dire niente.

Werry gli chiuse la mano in una stretta debole. — Tu non ci crederai, Rob, ma non riesco… Non riesco nemmeno a preoccuparmi di… — Il silenzio e l’immobilità scesero su di lui, e le sue dita abbandonarono la presa sulla mano di Hasson.

Hasson si alzò e si guardò attorno, con occhi bruciati dalle lacrime. Un uomo lì vicino gli tese il berretto di Werry, che aveva finito col cadere in quella zona. Victor Quigg si levò in piedi, prese il cappello e lo appoggiò sul petto di Werry. Rimase piegato sul corpo per qualche secondo, poi si voltò e si diresse verso la più vicina macchina della polizia, trascinando stancamente i piedi sull’erba alta. Hasson lo rincorse e lo afferrò per il braccio.

— Dove vai, Victor? — gli chiese.

— Voglio il mio fucile — rispose Quigg, rigido. — Vado sul tetto dell’hotel e mi metto lì ad aspettare col fucile.

— Forse Lutze non arriverà al tetto.

— Se ci arriva, io sarò lì col fucile.

— È a Theo che penso — disse Hasson, udendo le proprie parole da distanze sterminate, interstellari. — Dammi una pistola e un corpetto.

10

«Non sta succedendo niente. Sono sempre a terra, in salvo, al sicuro. Non sta succedendo niente».

Hasson osservò la parte inferiore dell’Hotel Chinook fiorire e dispiegarsi come un fiore carnivoro. L’edificio circolare diventava sempre più enorme ai limiti della sua visuale. Cominciò a distinguere i particolari della struttura; la raggiera di travi a sbalzo, la ragnatela di nervature e paramezzali, le aperture gemelle per gli ascensori una delle quali era accesa d’una violenta luce rossa, come se si spalancasse sull’inferno.

«È semplicissimo, capisci. Le fondamenta della colonna di sostegno si trovavano in una zona geologicamente irrequieta, forse una palude, e adesso tutto l’edificio sta scendendo giù come un pistone. lo sono sempre a terra, sano e salvo, e guardo l’hotel che si abbassa al mio livello».

La sua traiettoria lo portò più vicino alla sezione inferiore dell’hotel, e per la prima volta udì il ruggito del fuoco. Per il momento le fiamme non riuscivano a scendere in basso (solo poche ferite aperte nel metallo indicavano che le travi portanti e le lastre erano torturate dal calore e dalle tensioni termiche), però il fuoco e i gas di combustione risalivano agli altri piani attraverso le trombe delle scale e i pozzi di ventilazione. La loro avanzata era contraddistinta da violente esplosioni di legname, vetro e barattoli di vernice. Il vento trascinava via nubi di fumo disseminate di faville ardenti.

«È davvero affascinante, quasi un privilegio, per quanto spaventoso, potersi trovare qui a terra e vedere con tanta chiarezza quello che succede all’hotel. Mi viene in mente la distruzione dell’Hindenburg. Comunque, anche se sono a terra sano e salvo, quella finestra al secondo piano è proprio vicinissima, e se voglio fare un salto dentro, così, soltanto per dare un’occhiatina, sarà meglio che pensi a come…»

Hasson colpì a piena forza la finestra. La sua ascesa a proiettile gli fece superare il campo d’interferenza gravitazionale del muro praticamente senza diminuzione di velocità. Afferrò la maniglia dell’intelaiatura da cui mancavano sei pannelli, i suoi piedi trovarono un appoggio instabile sull’orlo del nulla, e d’improvviso si trovò dentro l’hotel, col fiato grosso, su un pavimento a piastrelle pieno di detriti. Il rumore del fuoco era molto più forte, e il calore gli risaliva nel corpo dalle suole delle scarpe. Forse i pavimenti di quel piano non avrebbero retto per molti minuti.

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