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Bob Shaw: Antigravitazione per tutti

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Bob Shaw Antigravitazione per tutti

Antigravitazione per tutti: краткое содержание, описание и аннотация

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Antigravitazione: recentissima scoperta che consente a chiunque, previo allacciamento di un semplice giubbotto, di vincere l’attrazione terrestre e librarsi in volo. Il sogno dell’umanità si è finalmente realizzato? Abbiamo infranto, per cosi dire, l’ultima barriera? Niente paura, i guai non sono finiti nemmeno lassù, e le vie del cielo possono rivelarsi più micidiali di quelle della terra. Ce lo ricorda questo magistrale romanzo dell’inglese Bob Shaw, un’utopia in nero che turberà per molto tempo i sonni dei nostri lettori con una dose di cinismo e violenza quale può permettersi solo la grande fantascienza.

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Theo scosse la testa. — Sul tetto c’è una porta, ma io non l’ho mai trovata. C’era sempre qualcuno a farmi entrare e uscire.

Hasson soppesò le probabilità, immaginò le possibili morti che li attendevano, e giunse ad una decisione. — Avanti, figliolo, scendiamo giù. E dobbiamo scendere in fretta .

Prese Theo per mano e lo spinse verso le scale. Il ragazzo cercò di resistergli, ma Hasson era molto più forte di lui. Pochi secondi dopo iniziavano il pericoloso viaggio verso i piani inferiori dell’hotel, crepitanti di fiamme. Theo, dopo essersi arreso, fece del suo meglio per reggere il passo di Hasson, ma era uno sforzo impossibile per un cieco.

La discesa si trasformò in una serie di continue collisioni, di cadute, di storte alla caviglia. Solo la ringhiera, che per fortuna li era già stata installata, li salvò da un disastroso volo nel pozzo centrale.

A ogni pianerottolo il calore, il fumo e il crepitio del fuoco si facevano più intensi, e quando finalmente raggiunsero il secondo piano, Hasson restò terrorizzato nel vedere che aveva cominciato a disintegrarsi. Alcune piastrelle si erano incurvate come dune di sabbia, e avevano i bordi incandescenti. Violenti tremiti agitavano l’edificio, accompagnati da paurosi ruggiti a bassa frequenza. Il pavimento avrebbe ceduto da un secondo all’altro.

Hasson spinse Theo verso l’apertura nella finestra. Afferrò il ragazzo per le spalle e lo girò verso di sé, accendendo il suo corpetto AG. La spia sul pannello di controllo restò spenta. Hasson scrutò con sguardo esperto il corpetto di Theo, e si arrestò, stupefatto, al morsetto che avrebbe dovuto contenere la batteria.

Lo choc gli contorse il viso.

— Theo! — urlò, stravolto dalla sconvolgente portata di quella scoperta. — La tua batteria! Dov’è la tua batteria?

La mano di Theo sfiorò il morsetto. — L’ha presa Barry… Me n’ero scordato.

— Non importa, va tutto bene. — Hasson piegò le labbra in un sorriso inutile davanti a quelle parole senza senso, poi staccò la sua batteria e la collegò al corpetto del ragazzo.

— Me n’ero scordato — ripeté Theo. — Quando ho saputo di papà… Cosa facciamo?

— Usciamo di qui come avevamo deciso — rispose Hasson. — Tu vai per primo e io ti raggiungo appena trovo un’altra batteria.

Il viso di Theo si girò verso l’inferno di fiamme, cieco, ma consapevole. — Come farà…?

— Non discutere — ordinò Hasson, completando il collegamento e riuscendo finalmente a far accendere la lampadina sul fianco di Theo.

— Potremmo provarci assieme — disse Theo. — Ho sentito parlare di gente che vola in coppia.

— Bambini. — Hasson lo spinse nell’apertura rettangolare. — Non persone adulte come noi, Theo. In due supereremmo la massa modulare di base. E una persona come te, così appassionata di volo, dovrebbe sapere tutto della massa modulare di base e del collasso di campo.

— Ma…

— Fuori! Ho sistemato i comandi appena sotto il limite di immobilità per il tuo peso, per cui quando esci lasciati fluttuare in giù e arriverai a terra. Adesso… Via!

Hasson spinse Theo con tutta la sua forza, mandandolo a cadere nel cielo notturno, buio. Theo, sentendosi muovere, aggiunse la spinta delle sue gambe e balzò fuori dalla finestra in una specie di lungo tuffo che lo trascinò oltre il campo d’interferenza gravitazionale del muro, al di sopra degli edifici ingioiellati della città. Prese a nuotare in un mare d’aria, morbidissimo.

Hasson restò a guardarlo scomparire, poi si accorse che la mattonella sotto i suoi piedi aveva cominciato a muoversi e inarcarsi come una cosa viva. Si avviò verso la scala, più incuriosito che spaventato, e in quel momento la mattonella esplose in una serie di frammenti.

Alcuni pezzi ricaddero al piano di sotto, altri volarono in alto sulle ali di un fuoco che illuminò a giorno il pianerottolo e disseccò gli occhi di Hasson. Lui si precipitò su per le scale e cominciò a correre, aspettando di sentir cedere gli scalini da un secondo all’altro. Altri rombi spaventosi, associati a un aumento della luminosità generale, gli dissero che l’intera struttura dell’hotel stava per soccombere al fuoco.

Cercò di aumentare la velocità, costringendo le gambe a superare uno spazio sempre maggiore a ogni passo, e il suo respiro cominciò a uscire in rantoli boccheggianti, straziati. Dopo avere corso per quello che gli parve un periodo lunghissimo, una nuova paura s’impossessò di lui: la paura di aver involontariamente superato il pianerottolo dove giaceva il corpo di Lutze. Oppure, oppure… E se Lutze fosse riuscito a sopravvivere anche alla seconda ferita mortale, magari per poco tempo, e non si trovasse più sul pianerottolo? Alzando gli occhi, Hasson vide che stava per raggiungere il punto in cui la ringhiera di metallo terminava, e identificò la propria posizione.

Si allontanò dal muro, spingendosi sul pavimento, ed ebbe un attimo di profondo sollievo quando vide la forma inerte di Lutze nello stesso identico punto in cui l’aveva lasciata.

Saltò il corpo, s’inginocchiò e prese a frugare attorno, sperando di trovare la massa oblunga della batteria di Theo, o addosso a Lutze o per terra. Non la trovò. Alzò la testa e ampliò il suo raggio d’osservazione, solo per scoprire che in quella luce irregolare, incerta, ogni pezzo di maceria, ogni detrito sembrava una batteria, e invece era sempre qualcosa d’altro.

In uno dei piani che aveva appena superato scoppiò una bomba, dando vita alle solite fiammate e a cumuli orizzontali di polvere e fumo. Dopo la pioggia di frammenti di carta e plastica, il pavimento ondeggiò, gli diede l’orribile sensazione di perdere l’equilibrio.

Hasson comprese che anche in quei momenti di pericolo estremo aveva obbedito a un certo lato della propria natura: si era concesso il lusso di trovare ripugnanti alcune cose. Fece girare su se stesso il corpo di Lutze, vide l’oscena ferita dalle labbra nere, e staccò la batteria dal corpetto del cadavere. Corpetto e impianto elettrico erano sporchi di sangue scuro. Hasson si sollevò stringendo la batteria al corpo, e balzò stancamente verso la scala.

Adesso la salita era più complicata perché mancava la ringhiera. La corsa prolungata, faticosa, gli aveva reso le gambe deboli, difficili da guidare. Le ginocchia tendevano a piegarsi, i piedi a sbagliare la mira di qualche centimetro, ma al suo fianco non c’era ringhiera, per cui cadere avrebbe significato precipitare nell’inferno del primo piano.

Oltre tutto, al momento si trovava in una parte dell’hotel che, a quanto gli risultava, nessuno aveva più percorso da quando Morlacher aveva sistemato le bombe, e questo comportava rischi ulteriori di essere spazzato nel nulla da una mano invisibile. La poca capacità di connettere che gli restava gli disse che bisognava correre il rischio: per sfuggire all’hotel doveva salire fino al tetto e scoprire l’uscita che Barry Lutze e gli altri ragazzi usavano. Era una prospettiva lugubre e pericolosa, ma non aveva altre possibilità.

Era riuscito a proiettare i suoi pensieri un poco in là nel futuro. Vincendo i dolori lancinanti alle gambe e l’affannosità estrema del respiro, cominciò a chiedersi se le scale che stava salendo terminassero in una porta sul tetto.

Erano previsti giardini a terrazze e piscine sulla sommità dell’edificio, per cui era probabile che il tetto si potesse raggiungere anche attraverso le scale, oltre che con l’ascensore. Sorretto dalla speranza di riuscire a trovare, all’improvviso e senza difficoltà, una via d’uscita, puntò gli occhi verso l’alto. Si chiese se sarebbe riuscito a identificare l’ultimo piano.

Quando ci arrivò, non ebbe difficoltà a riconoscerlo. L’ultimo piano dell’hotel era invaso da una spessa, impenetrabile cortina di fumo e gas di combustione che si estendeva quasi dal pavimento all’invisibile soffitto.

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