Ben Bova - La vendetta di Orion

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La vendetta di Orion: краткое содержание, описание и аннотация

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Ormai non ci sono dubbi: sotto le spoglie umane di John O’Ryan si nasconde una figura mitica, il leggendario cacciatore Orion. A crearlo è stato l’essere di un lontanissimo futuro che ha scelto di farsi chiamare Ormazd, e che con il suo aiuto intende condurre nel tempo e nello spazio una guerra spietata contro il più acerrimo nemico dell’umanità, Ahriman. Il primo scontro (in Orion, Urania 1038) sembra essersi concluso vittoriosamente, ma in realtà l’intervento di Orion ha causato una frattura nel continuum spazio-temporale, concedendo ad Ahriman e ai suoi neandertaliani un cosmo tutto per loro. Ormazd non ha affatto gradito la cosa e ha deciso di punire Orion strappandogli ciò che ha di più caro, per costringere il cacciatore a riprendere la sua battuta. Questa volta lo scenario-sarà il passato e la posta in gioco il salvataggio di Troia… perché Ormazd è deciso a cambiare addirittura la trama del tempo pur di distruggere definitivamente il suo nemico.

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Le travi per puntellare il tunnel erano un altro problema, dal momento che gli alberi erano molto scarsi in quella deserta terra rocciosa. Squadre di uomini vennero mandati a nord, lungo il fiume, nella terra chiamata Galilea, dove acquistarono il legno dagli abitanti dei villaggi intorno al lago.

Il terreno non era troppo difficile per i picconi di bronzo e rame che avevamo, finché rimanemmo al di sopra del mantello roccioso, anche se lo strato leggero era a malapena sufficiente a ospitare un tunnel. I nostri scavatori dovevano lavorare sdraiati sulla pancia. Poi, lo sapevo, una volta raggiunte le fondamenta dei due muri di sostegno esterni, sarebbero cominciate le complicazioni.

Passavo le notti con Elena, ed entrambi diventavamo più irascibili mentre il tempo passava lentamente. Lei voleva andarsene, e riprendere il cammino a sud verso l’Egitto.

— Partiamo adesso, stanotte, in questo momento — mi esortò. — Solo noi due. Non si prenderanno il disturbo di seguirci o riportarci qui. C’è Lukka ad occuparsi dello scavo, e questo è tutto ciò che realmente vogliono da te. Possiamo andarcene!

Io le accarezzai i capelli dorati, che brillavano nella pallida luce della luna. — Non posso lasciare Lukka e i suoi uomini. Hanno fiducia in me. E non possiamo sapere cosa farebbe veramente Giosuè se noi scappiamo. È un fanatico. Potrebbe massacrare Lukka e i suoi una volta finito il tunnel: sacrificarli al suo dio.

— E allora? Moriranno, prima o poi. Sono soldati; si aspettano di essere uccisi.

— Non posso farlo — dissi.

— Orion, ho paura di questo posto. Ho paura che gli dèi che tu visiti ti toglieranno a me per sempre.

Scuotendo la testa le risposi: — No. Ti ho promesso di portarti in Egitto ed è quello che farò. Solo dopo sistemerò le cose con colui che cerco.

— Allora andiamo in Egitto subito! Dimentica Lukka e gli altri. Di’ agli dèi di portarci in Egitto, adesso, stanotte!

— Non dico niente agli dèi — le ricordai.

— Allora lascia parlare me con loro. Sono una regina, dopotutto, e figlia di Zeus in persona. Mi ascolteranno.

— Ci sono volte — dissi — in cui parli come una bambina viziata, così presa da te stessa che meriteresti una sculacciata.

Lei sapeva quando aveva raggiunto il limite della mia pazienza. Circondandomi il collo con le braccia, sussurrò: — Non sono mai stata sculacciata. Non saresti così brutale con me, vero?

— Potrei.

— Non potresti pensare a qualche altra punizione? — Fece scorrere le dita lungo la mia spina dorsale. — Qualcosa che ti darebbe più piacere?

Io stetti al gioco. — Cos’hai in mente?

Passò il resto della notte a mostrarmelo.

Sebbene Elena ed io consumassimo di solito i nostri pasti con Lukka e gli uomini, vicino al nostro fuoco e nelle nostre tende, ogni tanto Giosuè o Beniamino mi invitavano a cenare con loro. Me solo. Avevano messo in chiaro che le donne non mangiavano con gli uomini. Io declinai la maggior parte di quegli inviti, ma ne accettai qualcuno per educazione.

Giosuè era sempre circondato da anziani e sacerdoti, con moltissimi servitori dei due sessi che si davano da fare intorno al suo tavolo. Si parlava sempre del destino dei Figli di Israele, e di come il loro dio li aveva riscattati dalla schiavitù in Egitto e aveva promesso loro il dominio su quella terra chiamata Canaan.

Beniamino, suo padre e i suoi fratelli parlavano di cose diverse, quando mangiavo con loro. Il vecchio ricordava i giorni in Egitto, a lavorare da schiavo come costruttore di mattoni per il re, che lui chiamava faraone. Una volta accennai al fatto che Giosuè mi sembrava un fanatico. Il vecchio sorrise con tolleranza.

— Vive nell’ombra di Mosè. Non è facile portare il peso del comando dopo che il capo più grande di tutti è andato a raggiungere Abramo e Isacco.

Beniamino si intromise: — Giosuè sta cercando di trasformare in un esercito un popolo di schiavi. Sta tentando di creare disciplina dove prima c’erano fame e paura.

D’accordo, ci voleva un uomo straordinario per riuscirci. E cominciai a guardare quegli Israeliti con occhi nuovi. Diversamente dagli Achei a Troia, appartenenti alla classe dei guerrieri, saccheggiatori da generazioni che costituivano il livello più alto di una società strettamente gerarchica, gli Israeliti erano un’intera nazione: uomini, donne, bambini, greggi, con le tende e tutti i loro beni, che vagava per quella terra bruciata dal sole, una terra di rocce e di montagne, in cerca di una patria. Non avevano nessuna classe guerriera. La sola casta privilegiata che riuscivo a vedere era quella dei sacerdoti, ma anche questi lavoravano con le mani, quando ce n’era bisogno. Cominciai a sentire di nuovo rispetto per loro, e mi chiesi se le promesse del dio sarebbero mai state mantenute.

Poco dopo il pomeriggio del quarto giorno di scavi, Lukka uscì dalla grande tenda, strizzò gli occhi contro il sole inesorabile e venne verso di me. Come sempre, indipendentemente dal caldo o dal freddo, indossava la corazza di pelle e portava tutte le sue armi. Sapevo che la cotta di maglia e l’elmo di ferro erano a portata di mano. Lukka era pronto alla battaglia in ogni momento.

Io mi trovavo su una bassa altura, e esaminavo il lontano muro di Gerico. Nessun segno di attività. Nessuna sentinella in vista. La città tremolava nella foschia della calura mentre il sole mi bruciava le spalle e il collo scoperti. Mi ero liberato di tutto, a parte il gonnellino.

Avevamo lanciato qualche freccia incendiaria contro la città, quella mattina. Ogni giorno davamo una piccola dimostrazione di forza da qualche parte lungo il muro occidentale, per far credere ai difensori che stessimo cercando un punto debole. Ma nel sole di mezzogiorno non c’era in giro praticamente nessuno.

Lukka colava sudore quando mi raggiunse. Io avevo fatto in modo che il mio corpo si adeguasse al calore, dilatando i capillari e regolando la temperatura corporea. Come qualunque essere umano, avevo bisogno d’acqua per restare in vita, ma diversamente dagli altri, potevo conservarla nei tessuti per un tempo molto più lungo; essudandone solo una piccola parte.

— Devi essere mezzo cammello — disse Lukka, quando gli offrii la borraccia che portavo con me. Bevve con avidità, assetato.

— Come va il lavoro? — chiesi.

— Abbiamo raggiunto la base del muro più esterno. Ho dato agli operai qualcuna delle nostre punte di lancia di ferro per affrontare i mattoni. Sono duri come pietra.

— Quanto ci vorrà per perforarlo? Si strinse nelle spalle, facendo scricchiolare leggermente la corazza di pelle. — Difficile saperlo. Potremmo lavorare di notte.

— Fammi vedere — dissi, incamminandomi verso la tenda.

C’era più fresco, all’ombra, ma l’aria era soffocante. La polvere era spessa abbastanza da farmi starnutire. Lukka ordinò agli operai di fermarsi e di uscire dal tunnel. Io mi misi carponi e avanzai strisciando.

Il tunnel era largo a sufficienza perché due uomini potessero passarvi carponi, fianco a fianco. Lukka mi seguì un po’ indietro. Non portavamo nessuna luce, ma ogni tre metri circa gli scavatori avevano infilato una sottile canna bucata che arrivava in superficie, ottenendo aria da respirare e una piccola quantità di luce, appena sufficiente ad evitare il buio totale.

Arrivammo alla fine del tunnel abbastanza rapidamente, e ci trovammo di fronte una parete di mattoni di fango duri come la pietra. A terra giacevano due corti paletti, ognuno portava legata una punta di lancia di ferro. I mattoni erano scalfiti e parzialmente perforati.

Nella luce fioca ne presi uno e colpii la parete. Un suono sordo e risonante, e alcune scaglie di fango secco vennero giù.

— Sarà un lavoro lento — dissi.

— E rumoroso — aggiunse Lukka. — Soprattutto se lavoreremo di notte, ci sentiranno dall’interno della città.

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