Mi chiesi dove fossero i Creatori, se sapevano dove mi trovavo. O se in quello spaziotempo fossero ancora dispersi attraverso la galassia, ancora in fuga dopo la capitolazione di Anya.
Tornai a pensare a lei, a come mi avesse tradito in un certo periodo mentre in un altro continuava ad amarmi. Chissà se in questo momento sta vegliando su di me o è in fuga tra le stelle, chiesi a me stesso. Non avevo alcun modo per saperlo, e a dire il vero non m’importava affatto. L’avrei scoperto più tardi, dopo essermi occupato di Set. Se fossi sopravvissuto, se fossi riuscito a ucciderlo una volta per tutte, avrei potuto affrontare anche Anya e gli altri Creatori. Fino ad allora sarei rimasto solo, e la cosa non mi dispiaceva affatto.
Per quanto mi sforzassi, non riuscivo a comprendere come i Creatori potessero fuggire in un’epoca passata e tuttavia continuare a vivere pacificamente nella loro città-mausoleo di un remoto futuro. Né come la dimora di Set potesse essere stata distrutta e tuttavia lui essere vivo e assetato di vendetta qui nel Neolitico.
— Come pensi di poter capire? — ricordai nuovamente la voce del Radioso nella mia mente. — Non ho mai instillato tale comprensione dentro di te. Non provarci nemmeno, Orion. Sei stato creato per essere il mio Cacciatore, il mio guerriero, e non un filosofo spaziotemporale.
Limitato. Menomato fin dallo stesso istante del mio concepimento. Eppure mi struggevo di capire. Ricordai le parole che il Radioso aveva pronunciato per spiegarmi che il continuum spaziotemporale è pieno di correnti e maree in costante mutamento, e che anche queste possono essere manipolate coscientemente.
Lanciai un’occhiata verso il torrente che avevo seguito per così tante settimane. Era un fiume di notevole grandezza, ormai, che scorreva lento e silenzioso verso qualche lontano incontro con il Nilo. Per me il tempo era come un fiume, col passato alla sorgente e il futuro alla foce. Un fiume che scorreva sempre nella stessa direzione, in cui la causa veniva sempre seguita dall’effetto.
Eppure sapevo, da ciò che i Creatori mi avevano detto, che il tempo era piuttosto simile a un oceano che si può percorrere in qualsiasi direzione, soggetto alle proprie maree e ai propri riflussi. La causa non precede necessariamente l’effetto, sebbene una creatura legata, come me, allo scorrere del tempo potesse percepirlo solo linearmente.
Ogni notte scrutavo il cielo. Sheol era ancora lassù ma aveva un aspetto spento, smorto. Tranne una notte in cui brillò con intensità tale da proiettare ombre sul terreno, rimanendo visibile fino a mezzogiorno della giornata seguente. Poi tornò a farsi più fioca.
La stella gemella del Sole stava ancora esplodendo, scagliando nello spazio interi strati di plasma, pelandosi come una cipolla fino a quando non fosse rimasto null’altro che un nucleo centrale di gas, troppo freddo per produrre le reazioni di fusione necessarie a far splendere una stella. I Creatori erano ancora intenti a mettere in opera la sua distruzione dal loro rifugio sicuro in un remoto futuro.
Il terreno intorno a me cominciò a farsi più familiare. Ero già stato da quelle parti. Per gran parte della mattinata continuai a seguire la riva del fiume, finché a un certo punto riuscii a riconoscere un faggio alto e robusto. Giunsi allora in un luogo nel quale un tronco giaceva a terra, mezzo soffocato da alti rampicanti e cespugli punteggiati di bacche. Di fronte a esso i resti carbonizzati di un fuoco annerivano il terreno. Anya e io ci eravamo accampati lì.
Distesi la schiena e inalai la brezza carica della fragranza dei fiori e dei pini. Il cielo si stendeva azzurro e del tutto sgombro, a eccezione di una nuvola grigia che veleggiava sulle ali del vento. Percepii il debole odore di un fuoco lontano. Il villaggio di Kraal distava non più di due giorni di marcia.
Cominciai ad allontanarmi dal corso del fiume, in direzione del villaggio di Kraal e Reeva, coloro che mi avevano tradito.
Ero solito procacciarmi il cibo verso il tramonto, quando gli animali scendevano al fiume ad abbeverarsi. Quella sera, ormai troppo lontano dal fiume, mi appostai nei pressi di uno stagno, nascondendomi dietro una macchia di cespugli sotto un vecchio noce, in attesa della mia cena. Il vento soffiava verso di me, e nemmeno il più sensibile fra i daini avrebbe potuto avvertire il mio odore. Rimasi completamente immobile, facendomi parte del paesaggio, in attesa.
Centinaia di uccelli cantavano e fischiavano fra i rami sopra di me, per salutare gli ultimi raggi del sole, poi i primi animali si fecero avanti cautamente verso la pozza. Per primi si avvicinarono alcuni scoiattoli, dimenando nervosamente la coda. A essi seguirono altri piccoli mammiferi pelosi, simili a marmotte.
Infine giunsero i cervi, che avanzarono guardinghi fermandosi a fiutare l’aria e a esaminare le ombre coi loro grandi occhi. Strinsi la presa sulla lancia ma rimasi nascosto e immobile, non per compassione ma perché ero sulla sponda opposta dello stagno, e quelli erano animali troppo lesti perché potessi rincorrerli.
Udii un suono cavernoso levarsi alle mie spalle, simile a un grugnito. Voltato il capo, vidi i cespugli ondeggiare furiosamente. Da essi uscì un grosso cinghiale, che avanzò con andatura ondeggiante verso di me; le sue zanne erano lunghe e appuntite come grossi pugnali. Non sembrò accorgersi della mia presenza, limitandosi a grugnire e brontolare mentre superava il punto in cui ero nascosto, barcollando verso la riva dello stagno.
Non aveva paura degli uomini. Forse non ne aveva mai visto uno. Di certo non ne avrebbe potuti vedere mai più.
Il cinghiale piegò il capo e cominciò a lambire l’acqua piuttosto rumorosamente. Con un solo, rapido movimento scattai in piedi e sollevai la lancia sopra la testa. Con ambo le mani ne scagliai la punta nella schiena dell’animale, conficcandogliela fra le costole. La sentii penetrare in quella pelle coriacea, aprendosi la strada verso il cuore e i polmoni.
Il cinghiale stramazzò a terra senza emettere un suono. I cervi sul lato opposto dello stagno, spaventati dal mio movimento improvviso, indietreggiarono di qualche metro, ma presto tornarono presso la sponda.
Mi congratulai con me stesso per la facilità di quella caccia, mentre svolgevo il crudo compito di scuoiare il cinghiale e tagliarne a pezzi le parti migliori coi miei strumenti di pietra.
Ma mi ero rallegrato troppo presto.
Il primo segno di pericolo venne quando i cervi sollevarono di colpo il capo tutti insieme per poi sparire fra gli alberi. Ma io non me ne accorsi. Ero inginocchiato sulla mia preda, intento a farne a pezzi la carcassa pregustando una cena succulenta.
Allora udii dietro di me un ruggito che poteva venire soltanto dalla gola di un leone. Mi voltai lentamente, senza fare movimenti bruschi, e vidi un enorme felino dalla criniera irsuta e i denti a sciabola fissarmi con occhi dorati e lucenti, con la saliva che gli scendeva da un lato della bocca.
Voleva la mia preda. Come un mafioso opportunista mi aveva lasciato compiere tutto il lavoro per poi appropriarsi dei frutti delle mie fatiche.
Lanciai un’occhiata fra le ombre dei cespugli per capire se era un maschio isolato o se con lui c’erano altre leonesse pronte a saltarmi addosso. Sembrava che fosse solo. Osservandolo con maggiore attenzione vidi le costole sporgere dal suo ventre scarno. Poi la fiera cominciò ad avanzare verso di me.
Doveva essere malato, o ferito, oppure troppo vecchio per mettersi a cacciare. Era ridotto ad arraffare le prede di altri animali dopo averli messi in fuga.
Per quanto malato, comunque, era pur sempre dotato di zanne e artigli micidiali. I miei sensi entrarono in ipervelocità non appena mi resi conto che la lancia giaceva in terra a più di un braccio di distanza.
Se mi fossi allontanato, con tutta probabilità la belva si sarebbe diretta sulla preda, permettendomi di fuggire. Ma se avesse deciso di aggredirmi, voltarle la schiena avrebbe potuto rivelarsi un errore fatale.
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