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Bob Shaw: Il terzo occhio della mente

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Bob Shaw Il terzo occhio della mente

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Fu mentre si versava il caffè della prima colazione che John Redpath s’accorse qualcosa di “strano”, di qualcosa “che non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse… Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se, tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero degli insoliti… Questo tradizionale (e insuperato) modo di cominciare una storia di fs, ben pochi oggi possono permetterselo. Bisogna infatti che un romanzo possa competere con i classici, per non deludere le aspettative suscitate nel lettore da un inizio di questo tipo. Ma per Bob Shaw, autore di “Quando i Neutri emergono dalla Terra”, la difficoltà non esiste: ogni suo nuovo romanzo, comunque cominci, s’impone immediatamente come un classico.

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Intanto Wilbur Tennent scendeva lentamente le scale col maglio, seguito dalla signorina Connie e da Betty York, che avevano ancora i loro micidiali scalpelli. Betty indossava solo la biancheria intima. Era ustionata allo stomaco e alle cosce, e su un lato della testa le si erano inceneriti i capelli. I suoi occhi, come quelli di Tennent, erano spenti, privi di vita.

Redpath, con la precisione meccanica di un robot, girò la rotella dell’accendino, e questa volta ricordò di tener abbassata la valvola del gas. Uscì una fiamma blu che lui accostò alla bottiglia, incendiando il fazzoletto. La bottiglia si trasformò in una torcia giallastra che emanava luce e calore. Il fronte della poltiglia informe smise immediatamente di avanzare. Redpath alzò di più la bottiglia, e a quella luce vide che nella massa amorfa, sul fondo, c’era qualcosa che sembrava una struttura centrale, una cresta di protoplasma in cui era sepolta una forma che poteva essere un occhio. L’occhio lo fissò, e a lui parve che la vita gli sfuggisse, gli sembrò di trasformarsi in un ammasso di organi immobili, privi di volontà.

“Si sta impossessando di me, Leila, e con una rapidità spaventosa!

“Devo lanciare la bottiglia prima che mi esploda in faccia, però so che non servirà a niente.

“Qui non c’è niente che possa bruciare!

“Forse la benzina riuscirebbe a ferire il nato-Una-Volta, ma è troppo grande per poterlo uccidere così. Non credevo che fosse tanto grande. Comunque non fa nessuna differenza, perché… perché…”

Redpath non riusciva più nemmeno a pensare. Tennent era arrivato in fondo alle scale e si stava avvicinando, il maglio puntato contro la sua spalla destra. Redpath tentò di muoversi, di sfuggire al colpo, ma era completamente paralizzato. Non poteva nemmeno aprire le dita e lasciar cadere la bottiglia. Tennent gli giunse più vicino, alzò il maglio sopra la testa, e improvvisamente si fermò in quella posizione. Davanti a lui si era materializzato Albert.

L’apparizione fu istantanea, magica, stupefacente.

Redpath aveva già intuito che Albert possedeva la facoltà del teletrasporto; ma vederlo comparire così all’improvviso gli procurò una sorpresa enorme, una sorpresa che superò anche il terrore della morte e la ripugnanza per la creatura aliena. Restò a guardarlo, travolto da una meraviglia superstiziosa. Albert distese le braccia, diventò un crocefisso che proteggeva Redpath dal maglio di Tennent.

— Togliti di mezzo — disse Tennent. La sua voce era monocorde, inumana. — Se non ti sposti dovrò ucciderti.

— Sarebbe una buona idea — replicò dolcemente Albert — ma non puoi. Vedi, io sono l’unico di cui il nostro padrone abbia ancora bisogno. Wilbur, sta succedendo tutto esattamente come aveva previsto Prince Reginald.

— Mentiva.

— No! Ci ha raccontato la verità. Ormai sono più di dieci minuti che le cose si sono messe in moto. Il padrone ha cercato di costringermi a trasportarlo nell’altra casa. E io non gli ho obbedito, Wilbur. “Ho fatto resistenza”, Wilbur. Per la prima volta in dodici anni ho trovato la forza di resistere a quel mostro.

I muri marroni, viventi, della cantina si gonfiarono e si sgonfiarono, come un cuore palpitante. Albert vacillò, quasi fosse stato colpito. Si girò a guardare Redpath. La sua faccia era pallida, solcata da rivoli di sudore; i suoi occhi erano di ghiaccio.

— È merito tuo, ragazzo. Il padrone ha paura, sta invecchiando, non riesce più a controllarmi come una volta; ma i guai più seri glieli hai dati tu. Più lui si sforzava di tenerti sotto controllo, più io ero libero. — Albert si interruppe, deglutì faticosamente. — Devi continuare a lottare, ragazzo. Non arrenderti adesso. Se riesci a gettare la bottiglia, dovremmo essere a posto. Io posso portare via tutti… Mettere fine per sempre a tutto questo.

Redpath sentiva che la bottiglia diventava sempre più calda, che correva il rischio di trasformarsi in una torcia umana, ma non riusciva a lanciarla. — Io… Io… Puoi portare via anche me?

Albert gli rivolse un sorriso strano, triste. — Tu non sei ancora parte di noi, ragazzo. Tu sei pulito.

— Pulito?

— È quello che ho detto. Vedi, non hai mai dovuto aiutarci a nutrire il padrone.

— Oh! — Redpath guardò gli occhi di Albert e vide qualcosa che andava molto oltre il dolore, qualcosa che non desiderava sapere.

— Sì, ragazzo, è orribilmente terribile. — Albert si girò a guardare Wilbur e le due donne. — Non lasciate tutto sulle spalle mie e di John! Per amor del cielo, dateci una mano a farla finita per sempre. — La sua voce era distrutta. Ogni parola era come lo spezzarsi di un osso.

Tennent spalancò la bocca, emise un gemito roco, lanciò il maglio. Il martello a due teste volò alto nell’aria, andò a piombare vicino al centro della poltiglia marrone, scomparve in un gorgo di liquidi scuri.

Un urlo silenzioso esplose nel cervello di Redpath, annichilendolo.

Si accorse solo vagamente che quell’orribile poltiglia si muoveva in avanti a velocità tremenda, agitando i tentacoli. La massa amorfa gli avvolse le caviglie, e lui provò dolore; ma il dolore era attutito dallo spettacolo terrificante di quello che stava accadendo a Tennent, a Betty e alla signorina Connie. Quando la poltiglia toccava la carne nuda delle loro gambe, la pelle scompariva, apparivano i muscoli, nudi, rossi, perfettamente visibili come su un atlante anatomico. La signorina Connie cadde carponi nella massa aliena, si rialzò. Le sue mani adesso sembravano guanti scarlatti.

Solo Albert era risparmiato da quella furia. Immobile su un lembo di cemento, fissava Redpath con intensità estrema.

Redpath, trafitto e ispirato dal suo sguardo, fece uno sforzo estremo per gettare la bottiglia. Il suo braccio ebbe un tremito. La bottiglia gli sfuggì di mano, cadde nella massa scura ai suoi piedi. Non scoppiò, ma la benzina incendiata si sparse tutt’attorno. La poltiglia si ritrasse a raggiera, come un iris che aprisse i petali. Un altro urlo silenzioso traversò la mente di Redpath.

Si portò le mani alle tempie, cercò di guardare Albert. Albert aveva chiuso gli occhi. La sua faccia, nonostante le deformità acromegaliche, era solenne come quella di un antico sacerdote. Redpath ne ebbe una ultima immagine frammentaria, lo vide deciso, eroico, con gli stivali logori, con la tuta marrone, col pacchetto di Lucky Strike che sporgeva da una tasca; poi l’immagine scomparve, nell’incredibile calor bianco di una fornace.

Albert non esisteva più.

Le tre persone, i tre ammassi di muscoli rossi che erano con lui, non esistevano più.

La massa di protoplasma scuro e intelligente che era con lui non esisteva più.

Redpath “sentì” la morte del nato-Una-Volta. Cadde in ginocchio nella cantina che adesso era vuota, pura, sicura; e per un istante, nell’ultimo sussulto delle facoltà telepatiche che gli erano state concesse, sentì la sorpresa e la soddisfazione che vibrarono nell’entità composita che era l’astronave aliena. Sentì anche gli echi di una gioia più limitata, deboli come la luce delle stelle a mezzogiorno: la gioia della capsula che stava precipitando verso la Terra, e che ora poteva rinunciare alla morte definitiva, poteva tornare alla nave.

Poi il terzo occhio della sua mente si chiuse per sempre.

14

Restava la tristezza immensa, la compassione enorme per quattro esseri umani travolti da qualcosa che era peggiore di ogni malattia, vissuti schiavi e prigionieri del terrore, morti tra le spire del dolore e dell’orrore. E come loro dovevano esserci state molte persone, nel corso degli anni; persone come Prince Reginald e i Rodgers, gli sfortunati proprietari della casa di Gilpinston. Chi poteva dire quanti uomini, animali e uccelli, forse ancora vivi, erano stati rigettati dalla cantina e fatti scomparire da Albert o dalla signorina Connie?

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