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Bob Shaw: Il terzo occhio della mente

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Bob Shaw Il terzo occhio della mente

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Fu mentre si versava il caffè della prima colazione che John Redpath s’accorse qualcosa di “strano”, di qualcosa “che non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse… Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se, tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero degli insoliti… Questo tradizionale (e insuperato) modo di cominciare una storia di fs, ben pochi oggi possono permetterselo. Bisogna infatti che un romanzo possa competere con i classici, per non deludere le aspettative suscitate nel lettore da un inizio di questo tipo. Ma per Bob Shaw, autore di “Quando i Neutri emergono dalla Terra”, la difficoltà non esiste: ogni suo nuovo romanzo, comunque cominci, s’impone immediatamente come un classico.

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“Quattro bottiglie di… benzina. È roba pericolosa. Forse dovrei avvisare Betty, chiederle di buttarle. Non vorrei correre il rischio di un incendio. Specialmente qui, dove sono al sicuro. Quel pezzo di ghiaccio di Leila si meritava tutto quello che le ho fatto, ma la polizia non la penserà così. Quando troveranno il cadavere cominceranno a cercarmi, ma qui non mi succederà niente. Qui sono al sicuro… Con la mia famiglia.”

Redpath si sentì improvvisamente vacillare. Dovette fare uno sforzo per non perdere l’equilibrio. Si portò le mani agli occhi, premette le dita per calmare un dolore che non era esattamente un dolore; e per un attimo gli apparve una serie di immagini contrastanti. C’era la schiena snella di Leila, nuda, sfigurata dalle coltellate; c’era un’altra immagine, confortante eppure inquietante, di Leila che stringeva un libretto nero che sembrava un passaporto; e al di sopra di tutto c’era una scacchiera trasparente di pannelli colorati, con luci che si accendevano e spegnevano in fretta, creando disegni complessi, urgenti. Quei disegni danzavano davanti ai suoi occhi con la velocità del vento che spazza un campo di grano. Ebbe la sensazione di qualcosa che stava per accadere, di un pericolo terribile, ma passò subito. Abbassò le mani, guardò la stanza, annuì soddisfatto, scese le scale per raggiungere gli altri che lo aspettavano.

“Qui va tutto bene” pensò. “Qui sono al sicuro con la mia famiglia.”

10

Un giorno d’attesa snervante ai voli internazionali dell’aeroporto Heathrow aveva lasciato Leila Mostyn più stanca di quanto non ritenesse possibile.

C’era sovrabbondanza di passeggeri diretti in America. Molti erano ragazzi che sembravano aver deciso all’improvviso di partire, e acquistare un biglietto non era stato facile. Non era riuscita a trovare posto sul primo aereo in partenza per Chicago. Aveva rinunciato ad alcune possibilità di volo con scali intermedi in favore di un volo extra che doveva partire a mezzogiorno. Tenuto conto dei fusi orari, sarebbe arrivata all’aeroporto O’Hara di Chicago verso le tre del pomeriggio, ora locale, col che le restavano quattro ore per raggiungere Gilpinston. Sarebbe stato meglio avere più tempo a disposizione, specialmente perché sapeva che i controlli all’ufficio immigrazione USA potevano essere molto lenti; ma a quel punto la cosa le sembrava ragionevole. Pensava di farcela.

Poi la situazione aveva cominciato a precipitare. Dapprima avevano annunciato che un guasto alla torre di controllo di Francoforte avrebbe ritardato l’arrivo del suo aereo di due ore. Leila era rimasta distrutta, vedendo che il tempo disponibile si dimezzava; ma ormai era troppo tardi per prendere un volo a scali intermedi. Con lo stomaco sconvolto da una sensazione di disagio, aveva cercato di modificare i suoi piani in rapporto alla scarsezza di tempo. Aveva mangiato qualcosa allo snack, e stava cercando di calmarsi con un bicchiere di vermouth, quando venne annunciata un’altra ora di ritardo. Qualche passeggero fece commenti ironici.

Erano riusciti a salire sull’aereo quando erano quasi le tre, e ormai lei si sentiva tesa, nervosa, ansiosa. L’uomo seduto al suo fianco aveva tentato di iniziare una conversazione, ma Leila gli aveva risposto con tanta freddezza e distrazione da costringerlo a dedicarsi a una rivista. Pochi minuti dopo, un capitano evidentemente imbarazzato aveva spiegato per altoparlante che l’arrivo in ritardo aveva causato problemi per il rifornimento di carburante, e che bisognava aspettare quarantacinque minuti prima che l’aereo fosse pronto a partire. La notizia aveva suscitato altri commenti ironici e aumentato, per una specie di strana reazione, l’allegria dei passeggeri più giovani. Qualcuno si era alzato, si era messo nei corridoi scambiando battute sarcastiche con gli amici.

Leila si era chiusa in una sfera di solitudine, separandosi da un ambiente che ormai le sembrava stupido e ostile, pieno di grida e risate assordanti, di cose e odori sconosciuti, di sibili pneumatici e gemiti idraulici. Quello era un mondo di gente normale che faceva cose normali, e lei ne era esclusa. Aveva paura di pensare troppo a quello che stava per fare; e fino a che le enormi portiere non si erano chiuse, sigillando l’aereo, aveva provato il desiderio di alzarsi e scendere. Solo quando si accesero i motori, facendo tremare il pavimento e i braccioli del sedile, lei permise al fiume di pensieri di riversarsi nella sua mente.

“Cosa mi hai fatto, John? Le cose che stanotte ho accettato come prove solo perché ero del tutto sconvolta non sono affatto prove. Un pezzo di giornale con la data sbagliata, un paio di coincidenze strane…

“Mio Dio, cosa sto facendo? Andrò a finire in galera, ecco cosa! Parto per gli Stati Uniti per andare a bruciare una casa con le bombe molotov. Mi chiuderanno in carcere, non uscirò più!”

Leila fissava due steward che stavano cercando di infilare un grande contenitore d’alluminio per cibi caldi nell’apposito scomparto. La sua mente era talmente sottosopra che solo dopo dieci minuti di vani tentativi da parte degli steward, Leila capì che la sequela d’inconvenienti e ritardi per quel volo non era ancora terminata. Il contenitore d’alluminio continuava a bloccare un corridoio, e l’aereo non s’era mosso di un millimetro.

Un’hostess cercò di dare consigli ai due steward, che la cacciarono in malo modo. L’hostess si arrabbiò. I due rinnovarono gli sforzi per sistemare il contenitore, lo presero a pugni, a spallate, facendo un gran fracasso. Arrivarono un altro steward e un membro dell’equipaggio. I quattro cominciarono a discutere sottovoce, e l’udito acuto di Leila captò due parole: “tecnico” e “dissigillare”. Il suo cuore cominciò a battere più forte.

L’annuncio del capitano che si prevedeva un altro ritardo suscitò applausi ironici, ma Leila non li sentì nemmeno. Si sganciò la cintura, si alzò, prese giacca e borsa e si incamminò verso la porta centrale dell’aereo che si era appena aperta. Uno steward in camicia bianca a mezze maniche le sbarrò la strada mentre lei cercava di oltrepassare il meccanico che stava salendo a bordo con una scatola d’attrezzi.

— Mi spiace, signorina — disse lo steward. — Non si può scendere. C’è qualcosa che non va?

— Ho cambiato idea. Non parto più. — Cercò di essere decisa, sicura. — Voglio scendere, e penso che questo rientri nei miei diritti.

Lo steward scosse la testa. — I passeggeri non possono più scendere quando i bagagli sono stati caricati. È una misura di sicurezza, signorina.

— Non me ne importa niente dei vostri regolamenti.

— Se volete tornare a sedervi sono sicuro che…

— Non ho nessuna voglia di tornare a sedermi perché questo aereo doveva partire più di quattro ore fa, e così io ho perso un appuntamento importantissimo, e adesso è inutile che vada in America, per cui non ci vado. — Leila alzò il tono di voce, attirando l’attenzione dei passeggeri più vicini. — Se cercate di tenermi a bordo per forza, mentre i vostri cosiddetti tecnici tentano di sistemare quel contenitore, vi prometto che butto in piedi la causa più rognosa, più lunga e più spiacevole che vi sia mai capitata.

— Ma non capite, signorina? — disse lo steward, con aria infelice. — Se scendete adesso dovremo scaricare tutti i bagagli e…

— Siete voi che non capite — ribatté Leila. — Se mi impedite di scendere immediatamente mi rivolgerò ai giornali, e racconterò che questo volo ha avuto un ritardo di quattro ore per un banalissimo contenitore di cibo. Farò in modo che tutta l’Inghilterra sappia che razza di servizio offre la vostra compagnia.

Lo steward alzò le mani. — Aspettate qui, per favore. Vi faccio parlare col capitano Sinclair.

I trenta minuti che seguirono furono uno dei periodi più difficili e imbarazzanti di tutta la vita di Leila, specialmente perché la sua brusca decisione di non partire suscitò i sospetti degli impiegati della dogana e dell’ufficio immigrazione, nonché della polizia; ma lei superò tutto con una calma gelida. Crollò solo quando, ripartita dall’aeroporto in direzione nord, si trovò nei pressi di Uxbridge. Accecata dalle lacrime, si fermò sul ciglio della strada, appoggiò la fronte sul volante.

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