Bob Shaw - Il terzo occhio della mente

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Il terzo occhio della mente: краткое содержание, описание и аннотация

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Fu mentre si versava il caffè della prima colazione che John Redpath s’accorse qualcosa di “strano”, di qualcosa “che non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse… Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se, tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero degli insoliti… Questo tradizionale (e insuperato) modo di cominciare una storia di fs, ben pochi oggi possono permetterselo. Bisogna infatti che un romanzo possa competere con i classici, per non deludere le aspettative suscitate nel lettore da un inizio di questo tipo. Ma per Bob Shaw, autore di “Quando i Neutri emergono dalla Terra”, la difficoltà non esiste: ogni suo nuovo romanzo, comunque cominci, s’impone immediatamente come un classico.

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Decise di consultare Henry Nevison. Henry le avrebbe dato ottimi consigli, sottolineati da frasi roboanti, tranquillizzanti. “Se fosse dimostrato che il Composto Centottantatré ha proprietà psicosomimetiche…” Eccetera eccetera.

All’idea di poter trasferire il fardello delle responsabilità sulle spalle di Nevison, che in effetti era l’unico colpevole, Leila diminuì la velocità. Subito le vennero in mente altre riflessioni. Se avesse interpellato la polizia, sarebbe scoppiato uno scandalo. I giornalisti si sarebbero gettati come avvoltoi su quella storia di strani esperimenti alla Boris Karloff, follia, dischi volanti, fatti di sangue in un nido d’amore. Ne avrebbero risentito tutti, protagonisti e comparse. Ne avrebbero sentito parlare persino i suoi genitori, a Pangbourne.

Prese una decisione. Al primo incrocio svoltò a sinistra, e poi di nuovo a sinistra. Stava tornando indietro, su una via parallela a Leicester Road. All’incrocio successivo girò di muovo a sinistra, arrivò in fondo alla strada, si fermò quasi all’angolo. Da lì riusciva a vedere l’ingresso del suo appartamento. Spense le luci, ma lasciò acceso il motore. Se John usciva e la vedeva, voleva essere in grado di ripartire subito, perché le era impossibile prevedere cosa potesse succedere. Le sue esplosioni di furia degli ultimi minuti erano già terrificanti; ma Leila capiva che non erano niente a paragone di quello che avrebbe fatto se avesse saputo che lei non stava correndo all’aeroporto di Londra, per raggiungere Gilpinston via Chicago.

Leila rabbrividì involontariamente, si strinse nella giacca. L’assalì il ricordo degli ultimi minuti con John: era piombato nell’irrazionalità più completa, l’aveva rincorsa brandendo il coltello mentre lei cercava il passaporto, si era messo a borbottare frasi incoerenti…

“Ricorda l’indirizzo, Leila… Io posso sconfiggere il grande burattinaio, ma lui non lo sa… Vai subito a Gilpinston… Il nato-Tre-Volte è troppo vicino… Noleggia un’auto, se è necessario… Riempi le bottiglie di benzina e tappale con degli stracci… Io riesco a sfuggire al suo controllo, ma il nato-Una-Volta non lo sa… Le due case devono esplodere contemporaneamente… Possiamo ucciderlo, Leila… Domani a mezzanotte, cioè alle sette dell’Illinois… Non temere, le bottiglie non ti esploderanno in mano… Abbi fede, abbi fede in me… Dài fuoco agli stracci e lancia le bottiglie dalla finestra… Il nato-Tre-Volte saprà cos’è successo…”

E poi, come ultimo tocco di follia, c’era stata la storia del televisore, assurda, incomprensibile. John aveva maneggiato i comandi sul retro dell’apparecchio, aveva trovato il dispositivo di regolazione verticale del quadro, glielo aveva indicato, l’aveva costretta a inginocchiarsi davanti al televisore e a prendere in mano il comando. Aveva acceso l’apparecchio, si era voltato di schiena coprendosi la faccia con le mani, e le aveva ordinato di girare il comando sul massimo, in modo che l’immagine rotolasse di continuo, così in fretta che non si capisse più cosa stavano trasmettendo.

— L’immagine gira? — le aveva chiesto timidamente. — lo non oso guardare.

In quel momento, e solo per un momento, la compassione per lui aveva quasi sopraffatto il senso di paura che urlava nei corridoi molecolari del suo sistema nervoso. Lui le era parso indeciso e vulnerabile come un bambino, e lei sapeva che questo gli succedeva quando si trovava di fronte a ostacoli imprevisti, e aveva osato sperare che quell’ombra oscura lo lasciasse. Ma, appena spento il televisore, l’aveva trascinata alla porta d’ingresso e gettata sul pianerottolo. La sua faccia era stravolta, inumana.

“Corri, Leila! Per amor di Dio… Per amor di tutti… Corri!”

Guardando la strada immersa nella tranquillità della notte, la fila di cancellate, gli alberi che alla luce dei lampioni sembravano possedere foglie di plastica, Leila cominciò a chiedersi se non fosse meglio andare subito da Henry Nevison. Aveva visto John infilarsi il giubbotto e aveva concluso che stesse per uscire; ma erano possibili deduzioni logiche, nel suo caso? Erano passati già diversi minuti, e a quanto pareva lui era ancora in casa. Strinse le mani sul volante, diede un colpo all’acceleratore; e in quell’istante ci fu un movimento sul lato opposto della via.

John Redpath apparve sotto il lampione e si incamminò verso il centro. Camminava piano, come un vecchio, e teneva il braccio sinistro premuto contro il fianco. Con la destra reggeva un oggetto che lei dovette guardare due volte per riconoscere: il suo televisore portatile. A testa bassa, con le spalle chine, apparentemente ignaro di tutto quello che lo circondava, Redpath scivolò di lampione in lampione. Leila sentì di nuovo la stessa compassione, e fu come un dolore fisico. Lo guardò scomparire lungo il tunnel della prospettiva, poi ripartì e parcheggiò davanti a casa.

Arrivata sul pianerottolo, scoprì che John aveva lasciato la porta aperta e le luci accese. Chiuse a chiave, prese il telefono, formò il numero di Nevison. Le rispose subito, e lei cominciò a parlare; poi si accorse che si trattava solo della segreteria automatica. Lasciò il suo nome, pregò Nevison di richiamarla subito, e rimase lì vicino al telefono per un altro minuto. Stava disperatamente cercando di pensare a qualcuno che potesse aiutarla. Probabilmente a quell’ora Frank Pardey non era in ufficio; e se anche ci fosse stato, come poteva dirgli che John era impazzito, l’aveva sbattuta fuori di casa e le aveva rubato il televisore, però non voleva denunciarlo?

Tesa, nervosa, si tolse la giacca, la ripose sull’attaccapanni; poi, tanto per fare qualcosa, sparecchiò la tavola e lavò i piatti. Quando ebbe finito era in preda a una tristezza profondissima, che permeava ogni suo pensiero e minacciava di travolgerla se solo rifletteva sulla calamità incredibile che aveva colpito Redpath. In due giorni, da quel “flâneur” normalissimo e simpatico che era, con un suo fascino disperato, con l’unico grande difetto di essere terribilmente possessivo, era diventato uno sconosciuto imprevedibile, convinto delle idee più pazzesche su alieni e dischi volanti.

Uno degli aspetti più inquietanti della metamorfosi era quell’aria di convinzione estrema, fanatica, che permeava le sue fantasie. A Pangbourne, Leila conosceva un ragazzo che aveva perso la ragione. A volte si metteva a parlare per ore intere degli emissari del Regno d’Orione che un giorno sarebbero giunti dal cielo a rapirlo, ma nei suoi occhi era sempre dipinto lo stupore. Lo stupore nasceva dal fatto che il ragazzo era ancora, almeno parzialmente, in contatto con la realtà, e lottava per conciliare due visioni del mondo in conflitto fra loro. John, invece, era mortalmente sicuro, era assolutamente convinto. Leila sapeva poco di patologia psicologica, ma aveva il sospetto che un’allucinazione così completa e intensa dovesse avere effetti prolungati. Forse il Composto Centottantatré non era semplicemente una droga psicosomimetica, forse aveva scatenato una follia irreversibile.

L’idea che il vecchio John Redpath fosse scomparso per sempre le fece capire che aveva cominciato, inconsciamente, a considerarlo parte integrante della propria esistenza. Sbalordita di scoprire che quella parte di sé che gli scrittori romantici chiamano cuore, e che lei pensava di avere sotto controllo assoluto, era un organo dotato di volontà propria, capace di creare situazioni impreviste, Leila bevve un po’ di caffè e si ritirò in soggiorno ad aspettare la telefonata di Nevison. A mezzanotte pensò di andare a letto, poi rinunciò: forse Nevison sarebbe corso subito da lei. Si accomodò sul divano, lesse i primi due capitoli di un romanzo senza riuscire a entrare nella storia, e chiuse gli occhi.

Qualche minuto dopo l’una la svegliò il trillo insistente del telefono. Si alzò, gelata, apprensiva, corse nell’atrio, sollevò il ricevitore.

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