Bob Shaw - Il terzo occhio della mente

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Il terzo occhio della mente: краткое содержание, описание и аннотация

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Fu mentre si versava il caffè della prima colazione che John Redpath s’accorse qualcosa di “strano”, di qualcosa “che non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse… Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se, tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero degli insoliti… Questo tradizionale (e insuperato) modo di cominciare una storia di fs, ben pochi oggi possono permetterselo. Bisogna infatti che un romanzo possa competere con i classici, per non deludere le aspettative suscitate nel lettore da un inizio di questo tipo. Ma per Bob Shaw, autore di “Quando i Neutri emergono dalla Terra”, la difficoltà non esiste: ogni suo nuovo romanzo, comunque cominci, s’impone immediatamente come un classico.

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— Grazie, grazie di aver chiamato, Henry — disse. — Stavo aspettando che…

— Chiedo scusa. — A interromperla era stata una voce sconosciuta. — Non è il numero del signor Redpath?

Leila riconobbe l’accento americano, e il suo senso d’apprensione crebbe. — Il numero è giusto, ma al momento John non è in casa.

— Oh! Quando posso trovarlo?

— Non tornerà per un po’ — rispose lei, poi obbedì a un impulso incomprensibile. — È dovuto uscire per una questione urgente, ma mi ha pregata di rispondere alla vostra telefonata. Io sono Leila Mostyn, lavoro con John all’istituto. Naturalmente so perché vi ha chiamato.

— Speravo proprio di parlare col signor Redpath.

— Non siete il signor Knight del “Gilpinston Bugle”?

— Sì, certo. — Rassicurato dal fatto che Leila conoscesse il suo nome. Il giornalista si animò. — Sono stato alla tredicesima Avenue, signora… Signorina…

— Leila.

— Grazie, Leila. Come dicevo, sono stato alla casa, ed è tutto vero! I particolari corrispondono perfettamente, anche il nome dei proprietari. Si tratta del signore e della signora T.E. Rodgers, e mi hanno raccontato che da un po’ non si vedono più. Ho pensato che il signor Redpath volesse essere informato subito.

— Siete stato gentile a chiamare — disse piano Leila. Esitò un attimo. Non riusciva a trovare la spiegazione più logica, più ovvia, per dimostrare che anche quella era una prova falsa, che John Redpath era sempre e comunque impazzito.

— Vorrei pubblicare questa storia sul numero di domani, ma il signor Redpath non mi ha dato il numero del… ehm… professor Nevison — continuò Knight. — Voi per caso non…?

— Il professor Nevison è fuori città — rispose subito Leila, quasi automaticamente. — Debbo avvisarvi che è molto scettico su questa faccenda. In tutta onestà, vi dirò che sarà alquanto seccato se viene a sapere che John ha parlato con voi senza la sua autorizzazione. Secondo lui, il nostro soggetto potrebbe aver ricavato tutte le informazioni da elenchi telefonici o lettere o conversazioni.

— L’ho pensato anch’io… Però c’è il particolare del bagno.

— Il bagno? — All’improvviso Leila si accorse delle tenebre che si addensavano alle finestre. — Cosa c’entra il bagno?

— A quanto pare, ieri mattina c’è stata parecchia confusione da quelle parti. La casa è disabitata da un po’, ma un ragazzo ha notato che la porta era aperta e ha deciso di entrare. Probabilmente sperava di trovare qualche soldo per terra. Sapete come sono i ragazzi. Ad ogni modo è tornato fuori a razzo, e sua madre lo ha trovato nascosto sotto il letto. Le ci è voluto un’ora per farlo parlare, ma il ragazzo ha giurato di essere entrato in bagno per fare un bisogno e di aver trovato due cadaveri nella vasca.

— Mostruoso — disse Leila, con voce distante.

— E none tutto. Il ragazzo ha detto che i cadaveri erano scorticati, ed era così sconvolto che la madre ha chiamato la polizia. Quando la polizia è arrivata la porta era chiusa dall’interno, ma una signora che vive nella casa di fronte ha detto di aver visto entrare un uomo coi capelli rossi in tuta marrone. Per cui i poliziotti hanno fatto scassinare la porta da un fabbro e sono andati a vedere in bagno.

— E allora?

— Niente di niente. Tutto a posto. La casa era completamente vuota.

Leila si sforzò di sembrare fredda, indifferente. — In altre parole, tutta questa storia non significa niente.

— Non capite — incalzò Knight. — Il signor Redpath mi ha detto che c’era qualcosa…

— Il signor Redpath ha una immaginazione molto vivida. Non credo proprio che sia il caso di proseguire questa conversazione. Addio, signor Knight. — Leila riagganciò sulle proteste del giornalista, si appoggiò alla parete, respirò profondamente. Aveva l’impressione che il mondo le stesse scivolando via da sotto i piedi.

Rimase così per più di un minuto, poi andò a prendere la giacca, appesa sulla parete di fronte. Il suo passaporto sporgeva parzialmente da una tasca. Lo guardò con occhi calmi, poi prese una decisione. Andò in camera da letto a preparare la borsa da viaggio.

Terza parte

9

La notte era trascorsa come un episodio di sogno.

Dopo aver fatto partire Leila per Londra aveva pensato di restare nel suo appartamento fino all’alba, poi aveva deciso di no. Bastava la telefonata o la visita di un amico per sconvolgere i suoi piani. Era uscito, incamminandosi verso il suo appartamento di Disley High Street, e s’era accorto che la ferita sanguinava ancora abbondantemente. Dal suo punto di vista, dal punto di vista del vero John Redpath, si trattava solo di un fastidio trascurabile. Poteva sopportare praticamente all’infinito il dolore e il freddo dei vestiti inzuppati di sangue; ma una voce gli aveva detto che gli occorrevano tutte le sue forze, tutte le sue risorse per la battaglia che lo attendeva.

Era andato al pronto soccorso dell’ospedale di Calbridge, dove il suo arrivo appena dopo l’ora di chiusura dei bar aveva dato l’impressione che lo avessero ferito in una zuffa. Solo il fatto che lui fosse perfettamente sobrio e la sua aria di rispettabilità avevano convinto il giovane medico a non chiamare la polizia, ad accettare la storia che si era ferito con uno scalpello per il legno. Lo avevano ripulito, gli avevano dato i punti, messo il disinfettante, lo avevano bendato, gli avevano fatto l’antitetanica e dato un sacco di raccomandazioni. Poi gli avevano scritto una ricetta e l’avevano rispedito a casa con l’ambulanza. Nella tranquillità neutra, dolcissima, del suo appartamento si era infilato nel letto freddo; e aveva dormito fino all’alba.

Risvegliandosi in una luce grigiastra, coi fantasmi delle impressioni sensoriali che cominciavano a piovergli addosso da tutto il palazzo, Redpath capì subito che gli effetti extrasensoriali ESP del Composto Centottantatré non erano ancora svaniti.

E capì anche che la sera prima, esausto e cerebralmente sovraffaticato com’era, aveva scoperto la tattica migliore per affrontare la situazione. Il trucco stava nel non pensare in maniera logica al suo piano, nel diventare un automa, uno zombie. La cosa nella cantina di Raby Street, il nato-Una-Volta, era ancora legato a lui, come gli aveva dimostrato il mostruoso momento di esistenza triplice, con tutte le sue rivelazioni; ma il legame non sarebbe mai stato completo come l’alieno desiderava, perché fra menti tanto diverse non esistevano i punti di contatto indispensabili.

Era il rapporto quello che mancava, decise. Su certi livelli esisteva una sorta di comunicazione, ma non c’era rapporto, e finché le cose stavano così lui sarebbe rimasto se stesso, avrebbe pensato con una parte del suo cervello, lasciando che un’altra parte guidasse le sue azioni. Sempre ammettendo che riuscisse a tenere sotto controllo le sue azioni…

“La famiglia mi vuole. Forse mi stanno cercando! Che diavolo potrei fare se Albert mi apparisse qui davanti?

“E quanto tempo resta? Quanto tempo, prima che arrivi la megamorte?”

Galvanizzato dal senso d’urgenza della sera prima, Redpath scostò le lenzuola e rotolò di lato. Il dolore della ferita lo colpì all’improvviso, intensissimo. Più cauto, si alzò, si massaggiò il fianco, indossò un maglione leggero e un paio di calzoni puliti. La luce del giorno aumentava d’intensità. In lontananza passò il camioncino di un lattaio, segno che la città si stava risvegliando. Prese la borsa da ginnastica in finta pelle, v’infilò dentro i cinque fazzoletti che possedeva e chiuse la cerniera lampo. Senza perdere tempo a mangiare o a radersi, raccolse la borsa e il televisore di Leila (non era troppo pesante, ce l’avrebbe fatta) e uscì.

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