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Algis Budrys: Morte dell'utopia

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Algis Budrys Morte dell'utopia

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Il pavimento del mondo è increspato come il fondale di un oceano. Il sole al tramonto inchiostra d’ombra violetta ogni increspatura. Le dune riempiono il mondo fino agli orli. E su questo pianeta che non è la Terra, un uomo insegue l’amsir, la grande bestia alata, per ucciderla. Perché gli uomini hanno sempre fatto cosi, da che il tempo è iniziato all’ombra della Spina. Ma per Honor White Jackson qualcosa cambia all’improvviso: l’amsir parla, e scaglia dardi. Forse, allora, la realtà non è soltanto quella di cui ha sempre parlato l’Anziano... Cosi inizia Morte dell’utopia, uno dei romanzi più originali, magici e inquietanti della fantascienza moderna, scritto da un maestro del genere, Algis Budrys.

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Con tutte quelle informazioni che circolavano tra gli umani sin da quando il tempo aveva avuto inizio con la creazione della Spina, era inconcepibile che gli amsir non avessero dedotto quanto c’era di vero e quanto gli umani credevano, in modo da regolarsi di conseguenza. Gli amsir, dopotutto, erano nel deserto al di là dei campi fin dall’inizio del tempo, e avevano visto molti contadini usare l’aratro e molti Honor balzare fuori da una duna, in un’imboscata notturna.

Si diceva che il mondo non fosse stato fatto per gli amsir: gli amsir erano stati fatti per il mondo. In ogni caso, non era un mondo per gli uomini, e si poteva presumere che gli uomini lo sapessero. Quindi, pensò White Jackson mentre correva sulla sabbia, con lievi vortici nello spazio immediatamente intorno a lui, come se l’aria fosse quasi acqua bollente, che intenzioni aveva l’amsir? Si aspettava davvero che lui lo seguisse oltre l’orizzonte della Spina e stramazzasse morto per fargli piacere?

Sembrava che fosse proprio così.

Era proprio così. Dopo aver visto un amsir sfuggire a un’imboscata e mantenere scrupolosamente una velocità dimezzata fingendo di correre con tutte le sue forze, White Jackson era pronto a credere che cacciare gli amsir fosse molto più complicato di quanto gli avessero mai detto. Poco prima, la bestia aveva cominciato a farlo girare intorno a una delle rare rocce affioranti, e Jackson si era aspettato che altri tre o quattro amsir lo attendessero per balzargli addosso. E invece non era accaduto nulla; la curva ampia del loro percorso aveva ormai superato la spugnosa sporgenza di roccia arancio-sanguigna, e cominciava a ripiegare dietro di essa. La distanza dalla roccia gli permetteva di vedere che lui e l’uccellaccio infido erano le due sole cose vive, in quell’area.

Bene. Erano più o meno lontani dalla Spina quanto era disposto ad arrivare Honor White Jackson. Avrebbe dovuto ritornare di notte, e risolvere il problema del percorso invertendo i ricordi di ogni cambiamento di direzione e di ogni tratto che aveva coperto dopo averla lasciata. Sperava che avrebbe dovuto compiere il tragitto di ritorno con i trentacinque chili dell’amsir sulle spalle, ed era pronto a cominciare. Ancora otto passi, e sarebbe incespicato, avrebbe perso il bastone e il dardo, si sarebbe graffiato la faccia e avrebbe cercato di tornare indietro strisciando, come se l’amsir l’avesse attirato oltre l’orizzonte. Se l’uccellaccio non ci fosse cascato, tanto peggio. Altrimenti, si sarebbe buscato diritto nella gola il dardo di riserva di Jackson.

Ma dopo tre passi soltanto, il mondo divenne freddo e la sua gola si riempì di schegge. Aveva continuato ad avanzare a un’andatura che copriva tre braccia e mezzo al secondo, comodamente, facendo i suoi piani, e adesso barcollava in avanti, agitando le braccia, incapace di fermarsi fino a quando fosse caduto, incapace di fare qualunque cosa che non fosse cercare di strappare un respiro all’aria irrespirabile. Pensò che i suoi globi oculari sarebbero gelati. Cercò con lo sguardo indignato la Spina, e non riuscì a comprendere perché, se era ancora entro l’orizzonte della Spina, una rossa rupe affiorante che si parava in mezzo facesse lo stesso effetto che perdere la calotta. Black Jackson non gli aveva mai detto nulla in proposito, e neppure gli altri.

E adesso quel maledetto amsir si stava girando.

II

L’amsir si avventò come una furia: niente al mondo poteva muoversi più veloce di un essere della sua specie quando lo voleva, e quello voleva Honor White Jackson, e subito. Le ali erano sollevate, come un uncino per ogni luna. Il giavellotto era stretto, a metà dell’asta, nella minuscola mano destra che spuntava dove l’ala si ripiegava, a metà apertura: il pollice e le tre dita erano stretti in un pugno ossuto. L’amsir accelerava e i suoi passi diventavano più lunghi e incalzanti. Sembrava quasi volare. Le ali si piegavano in coppe coriacee nell’aria rarefatta e battevano con una pulsazione rumorosa che sollevava onde di polvere accanto alle ginocchia scattanti. Adesso White Jackson poteva vederlo bene in faccia… Il sogghigno estasiato del becco, l’esaltazione dell’adrenalina che brillava negli occhi. Gli artigli ridacchiavano sulla sabbia.

E quasi Jackson non se ne curava. Sapeva cosa causava quell’effetto: erano il freddo e l’asfissia a preoccuparlo solo di ciò che avveniva dentro di lui. Dopo che Black gli aveva mostrato il trucco con la calotta, aveva riflettuto a lungo su quel che era successo e, sebbene diverse vecchie gli avessero detto che era una specie di colpo di sole e forse la punizione dell’empietà, lui aveva concluso che erano stati il freddo e la mancanza d’aria. Una mancanza d’aria improvvisa che colpiva un uomo a metà d’un respiro e quasi gli arrestava il cuore per la paura, quando un’utile azione quotidiana all’improvviso non gli procurava altro che una disperata delusione. Quindi comprendeva perché il suo corpo avrebbe voluto raggomitolarsi su se stesso e le sue mani avrebbero voluto battere sulla gola.

Aveva fatto una prova, convincendo uno dei figli del vicino a colpirlo allo stomaco, e aveva provato una sensazione molto simile… Niente freddo, o bruciore agli occhi e al naso, ma la stessa impotenza, fino a quando lo spasmo era passato e lui aveva potuto ansimare. Immaginava che, se avesse riflettuto abbastanza, avrebbe potuto spiegare anche il freddo, e la cosa che creava screpolature sanguinanti entro le sue narici. Ma l’asmir avanzava. Il bastone e il dardo di White Jackson erano lontani, sulla sabbia, come se li avesse gettati via apposta, e lui stava morendo.

Nonostante tutti i suoi ragionamenti, non avrebbe avuto scampo se non avesse pianificato in anticipo di simulare la stessa scena. Non aveva aria… Niente aria, e non si può resistere a lungo senza cercare di respirare, se si hanno i polmoni vuoti, anche se si sa di non avere più aria intorno. Ma aveva l’altro dardo, e mentre si piegava su se stesso si portò una mano all’ascella in un gesto naturale. L’amsir l’aveva raggiunto. Era su, in aria, al culmine di un grande balzo, con le ali incurvate, e Jackson non capiva perché non allargasse quei piedi simili a clave unghiute, pronti a dilaniarlo nella discesa. Lui l’avrebbe fatto. Ma l’amsir era lassù, e gli cadeva addosso da un’altezza pari alla sua lunghezza. Le estremità delle ali, adesso, erano ripiegate all’indietro e verso il basso, e la mano, che stringeva il giavellotto era inclinata verso di lui. La lucente punta metallica stava per colpire la sabbia proprio davanti ai suoi occhi, e l’amsir strillò: «Arrenditi! Arrenditi!».

White Jackson era raggomitolato sulle ginocchia e sul petto, con la faccia sulla sabbia e gli occhi roteanti. Teneva il dardo nella mano, sotto il corpo, con la punta che sporgeva dal pugno, per imprimergli maggiore potenza. «Arrenditi, diavolo bagnato!», strillò l’amsir, mentre Jackson gli posava la mano aperta sulla caviglia, dura come uno scarafaggio.

Vi fu un gran chiasso, un turbine d’ali, e Jackson trascinò l’amsir sulla sabbia, al suo livello. Con un sussulto si buttò sul corpo, che era altrettanto duro, e avviluppato in veli svolazzanti, e lui stesso si trovò avviluppato tra ali e unghie, con la testa incassata al massimo tra le spalle, e il becco che lo dilaniava. Il colpo trapassò la gola dell’amsir, la spina dorsale; e poi ancora un altro colpo attraverso il petto dell’amsir e in una bolla (una delle due più grandi, là dentro, sotto il corno e il resto), e Jackson abbracciò l’amsir con tutto l’affetto del mondo, con la bocca sullo squarcio del petto, aspirando, aspirando.

L’amsir sussultò e sbatté le ali tambureggianti, scalciò con le gambe, inarcò la schiena, ma White Jackson non lo mollò. Ciò che usciva dall’amsir era caldo di vita e gonfio come un grido; quando i suoi polmoni ne furono pieni da scoppiare, dovette serrare la gola per resistere alla pressione. E non poteva muovere la testa, perché la sua bocca era l’unico tappo che aveva per bloccarlo.

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