Decisi di aspettare. Dopo che da un bel po’ l’ultima valigia era stata prelevata, e il nastro trasportatore si era fermato, mi resi conto che avevo un problema.
Quando spiegai il mio problema, il supervisore incaricato di negare qualsiasi responsabilità in qualsiasi caso, mi disse che avrebbe cercato i colli mancanti, mentre io compilavo il modulo per il risarcimento dei danni, se pensavo che ne valesse la pena… anche se a lui sembrava che il danno al bauletto fosse piuttosto vecchio.
Ebbe un sacco di tempo per cercare, perché c’era un sacco da scrivere sul modulo. Quando ebbi finito, mi fece aspettare ancora mezz’ora. Chiamai l’Agenzia dicendo che sarei arrivato m ritardo. La cosa non sembrò preoccuparli. Mi diedero l’indirizzo della casa che avevano prenotato per me, mi dissero di sistemarmi, perché tanto ero atteso solo per la mattina dopo. È bello sapere che qualcuno sente la tua mancanza. Poi arrivò il sovrintendente, con la notizia che il resto del mio bagaglio era partito o per Parigi o per Rio de Janeiro, e che ci sarebbe voluto un bel po’ prima di rivederlo.
E così, senza valigie, mi unii alla triste fila che attendeva il convoglio della metropolitana.
Mezz’ora dopo, quand’ero finalmente arrivato in fondo alla coda, mi ricordai che non avevo cambiato i soldi, e che non avevo abbastanza per pagare la corsa. Trovai una cassa automatica, composi il mio numero di codice, e una voce melliflua e senza corpo mi disse: — Sono profondamente spiacente, signore o signora, ma questa Cassa Continua Automatica Aperta Giorno e Notte è temporaneamente fuori servizio. Consultate la piantina, onde poter individuare la cassa più vicina. — Ma quando mi guardai attorno, non vidi alcuna piantina. Bentornato a casa, Tenn!
New York, New York. Che meravigliosa città! Tutti i miei piccoli fastidi vennero dimenticati, perfino quello che Mitzi mi avesse tagliato fuori dalla richiesta di risarcimento. Dieci anni non parevano aver cambiato gli alti edifici che sparivano nell’aria grigia. Grigia e fredda. Era tornato l’inverno; negli angoli c’erano mucchi di neve sporca, e ogni tanto un consumatore ne raccoglieva furtivamente un po’, per portarsela a casa ed evitare la tassa sull’acqua. Dopo Venere, sembrava il paradiso! Guardavo la Grande Mela a bocca aperta, come un turista di Wichita. E camminavo anche come un turista, andando a sbattere contro i pedoni frettolosi, e anche contro cose peggiori dei pedoni. La mia capacità di destreggiarmi nel traffico era sparita. Dopo tutti gli anni passati su Venere, non ero più abituato alla civiltà. Qui un pedibus a dodici pedali, lì tre taxi in competizione per un varco nel traffico; pedoni che saltavano da una parte e dall’altra per evitare i veicoli. Le strade erano intasate, i marciapiedi stracolmi, ogni edificio emetteva e ingoiava un centinaio di persone al secondo, mentre gli passavo accanto. Ah, era meraviglioso! Per me, almeno. Per la gente contro cui andavo a sbattere, inciampavo, o che costringevo a deviare, forse non tanto. Non mi importava! Mi gridavano dietro, e non ho alcun dubbio che fossero insulti, ma io galleggiavo in una fuligginosa, soffocante, fredda estasi. Slogan pubblicitari a cristalli luminosi scorrevano sui muri, i più recenti luminosi come il sole, i più vecchi sporchi e resi irriconoscibili dai graffiti. Sul marciapiede i chioschi fornivano campioni gratuiti di Fuma-Godi e Caffeissimo, e tagliandi di sconto per mille prodotti. Nell’aria nebbiosa apparivano immagini olografiche di cucine miracolose e di viaggi fantastici ed esotici della durata di tre giorni; da ogni parte si sentivano canzoncine pubblicitarie… Ero a casa. Ero felice. Certo però che era un po’ difficile farsi strada in mezzo alla folla, e quando vidi un tratto di marciapiede miracolosamente sgombro, mi ci buttai.
Chissà perché, il vecchietto che spinsi da parte per arrivare al marciapiede mi lanciò una strana occhiata. — Attento, capo! — mi gridò, indicando un segnale, ma naturalmente era coperto di graffiti. Non ero dell’umore adatto a badare a qualche divieto comunale. Andai oltre…
E WOWP una mazzata sonora mi piombò sul cranio, e FLOOP una vampata accecante di luce mi bruciò gli occhi, e caddi a terra mentre mille vocette piccole piccole urlavano come aghi nelle mie orecchie Mokie-Koke, Mokie-Koke, Mokie-Mokie-Mokie-Koke!
E continuò così, con qualche variazione, per un centinaio di anni o più. Odori fetidi mi assalivano il naso. Brividi subsonici mi scuotevano il corpo. E un paio di secoli dopo, mentre le orecchie mi ronzavano e gli occhi mi bruciavano per quella terribile esplosione di suono e di luce, mi rimisi in piedi.
— Te l’avevo detto — mi gridò il vecchietto da una distanza di sicurezza.
Non erano passati secoli. Il vecchietto era ancora lì, sempre con quell’espressione strana, per metà avida, per metà di compassione. — Te l’avevo detto. Non mi sei stato a sentire, ma io te l’avevo detto!
Indicava ancora il cartello, così mi avvicinai barcollando e riuscii a decifrare la scritta, sotto i graffiti:
ATTENZIONE!
ZONA PUBBLICITARIA
ENTRATE A VOSTRO RISCHIO
Evidentemente c’era stato qualche cambiamento, mentre ero via. L’uomo allungò cautamente una mano oltre il segnale e mi tirò per un braccio. Non era poi così vecchio, vidi. Più che altro era consumato . — Cos’è la Mokie-Koke? — chiesi.
Lui disse prontamente: — La Mokie-Koke è una miscela dissetante e vistosa delle migliori essenze di cioccolato, estratto di caffè sintetico e analoghi della cocaina. La vuoi assaggiare? — Volevo. — Hai dei soldi? — Ne avevo, il resto di quelli che mi ero procurato alla fine dalla cassa automatica. — Me ne offri una, se ti faccio vedere dove la vendono? — mi propose.
Be’, che bisogno avevo di lui per trovarla? Ma non potevo fare a meno di sentir compassione per quel povero disgraziato, così lasciai che mi accompagnasse dietro l’angolo. C’era un distributore automatico, uguale a tutti quelli che avevo già visto sulla Luna, allo spazioporto, per le strade della città. — Non conviene la lattina singola — mi avvertì impaziente. — Prendine una confezione da sei. — Quando gli diedi la prima lattina, tirò la linguetta e la trangugiò tutta sul posto. — Poi tirò un gran sospiro. — Mi chiamo Ernie, capo — disse. — Benvenuto nel club.
Stavo bevendo la mia Mokie-Koke con curiosità. Il sapore era discreto, ma niente di speciale, e non riuscivo a capire il perché di tutta quell’agitazione. — Quale club? — chiesi, aprendo un’altra lattina, per semplice curiosità.
— Sei stato campbellizzato. Avresti dovuto darmi retta — disse con aria severa, — ma visto che non l’hai fatto, ti dispiace se ti accompagno?
Poveretto! Mi faceva tanta pena che divisi a metà la confezione da sei mentre camminavamo verso l’indirizzo che mi aveva dato l’Agenzia. Tre lattine a testa. Mi ringraziò con le lacrime agli occhi, ma della seconda confezione gliene diedi solo una.
L’Agenzia mi aveva trattato bene. Quando arrivammo alla mia nuova casa, mi liberai di Ernie e corsi al mio appartamento. Era un condominio galleggiante, appena arrivato dal Golfo Persico (era un’ex petroliera), quasi nove metri quadrati di superficie, con cucina incorporata, tutti per me, ed era vicinissimo agli uffici dell’Agenzia, essendo ancorato sulla Baia di Kip, nella terza fila di navi.
Il lato negativo, naturalmente, era il costo. Tutti i risparmi che avevo accumulato su Venere se ne andarono con l’anticipo, e dovetti ipotecare tre anni di stipendio. Ma non c’era da preoccuparsi. Avevo servito bene la mia Agenzia, su Venere, e non c’era alcun dubbio nella mia mente che mi aspettava un aumento di stipendio… non solo un aumento, ma una promozione… non solo una promozione, ma forse un ufficio d’angolo! Tutto sommato, ero soddisfatto del mondo (a parte un paio di dubbi che non avevo ancora risolto, come quella faccenda della causa per danni), mentre mi bevevo una Mokie-Koke e contemplavo la mia nuova dimora.
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