Così, a malincuore, l’uomo ci fece passare, e non appena fummo usciti sussurrai a Mitzi: — Mi hai salvato… Grazie!
— Hanno cominciato con questa politica un paio di anni fa — disse lei. — Se avessimo ammesso di aver fatto un falso giuramento, la cosa sarebbe finita sulla nostra scheda. Allora sì che sarebbero stati guai.
— È buffo che tu lo sapessi, e io no.
— Mi fa piacere che tu ci veda il lato comico — disse lei sarcasticamente, e mi accorsi che, per qualche ragione, era irritata. Poi disse: — Scusami, sono di cattivo umore. Proverò a farmi togliere qualcuna di queste bende… poi sarà ora di prendere il traghetto.
Terra! La patria dell’homo sapiens. La dimora della vera umanità. La culla della civiltà. Quando entrammo nella camera di decompressione della navetta, e vidi i suoi graffiti, seppi che ero a casa. Everett ama Alice. Tiny Miljiewicz ha le croste nelle orecchie. Siete tutti cornuti! Non c’è niente su Venere che possa paragonarsi alla nostra arte popolare!
Così scendemmo dal cielo, a sobbalzi e scossoni; mi preoccupavo per le ferite di Mitzi, ma lei si limitò a farfugliare qualcosa e si voltò dall’altra parte, addormentandosi. Volammo sull’immenso oceano, grigio-verde per la melma… poi sul grande continente nordamericano, che ci accolse con il tappeto delle sue città, che splendevano di mille luci attraverso lo smog… poi il sole che ci eravamo lasciati alle spalle riapparve mentre scivolavamo sull’Atlantico, facevamo una conversione ad U per diminuire ulteriormente velocità e altezza, e toccavamo terra sulle lunghe piste dello spazioporto di New York. La vecchia New York! Il perno attorno a cui gira l’universo! Sentii il mio cuore battere di orgoglio e di gioia perché ero tornato a casa… Mitzi, sul sedile vicino al mio, aveva dormito per tutto il tempo!
Si mise a sedere mentre aspettavamo che il trattore ci agganciasse e ci portasse al terminal. Lei fece una smorfia. — Non è bello essere di nuovo a casa? — le chiesi sorridendo.
Lei si appoggiò a me, guardando fuori dal finestrino. — Certo — disse, ma non sembrava molto entusiasta. — Vorrei…
Ma non scoprii mai cosa voleva, perché cominciò a tossire furiosamente. — Mio Dio! — ansimò. — Cos’era questa roba?
— Stai respirando la vecchia buona aria di New York City! — le dissi. — Sei stata lontana troppo tempo. Ti sei dimenticata com’è.
— Potrebbero almeno filtrarla — si lamentò. Be’, si capisce che era filtrata. Ma non le dissi niente. Ero troppo occupato a prendere i bagagli dalla reticella e a mettermi in fila per sbarcare.
Erano le sette del mattino, tempo locale. Non c’era ancora molta gente nel terminal. Questo era il vantaggio. Lo svantaggio era che mancavano anche gli addetti allo scarico dei bagagli. Mitzi mi seguì di cattivo umore alla consegna, e qui mi aspettava una sorpresa. La sorpresa si chiamava Valentine Dambois, Vice-Presidente Anziano e Direttore Generale Associato, guance rosa, occhi azzurri ammiccanti, pieghe di grasso che ballonzolavano mentre ci correva incontro.
Mi dissi che non dovevo poi sorprendermi… avevo fatto un buon lavoro su Venere, e non avevo mai dubitato che l’Agenzia mi avrebbe trattato con tutti i riguardi, una volta tornato. Ma non fino a questo punto! Non si manda un dirigente di alto rango ad accogliervi a quell’ora del mattino, a meno che uno non sia davvero qualcosa di speciale. Così, felice e pieno di grandi speranze, tesi la mano. — È un piacere vederti, Val — cominciai…
Lui mi passò a fianco. Dritto verso Mitzi.
Val Dambois era un tipo piccolo e grassottello, e la cosa più grassa che aveva era la faccia; quando sorrideva sembrava una zucca matura sul punto di spaccarsi in due. — Mitzi-pissy! — gridò, anche se era solo a mezzo metro da lei, e le stava andando ancora più vicino. — Mi sei mancata tanto, dolcezza! — Le gettò le braccia attorno e si alzò sulla punta dei piedi per darle un gran bacio.
Lei non rispose al bacio. Tirò indietro la testa, così che le labbra di Val le arrivarono solo al mento. — Ciao — disse — … Val.
Lui rimase di sasso. Per un momento pensai che Mitzi avesse gettato al vento qualsiasi speranza di promozione potesse avere, ma Dambois fece un grosso lavoro di ricostruzione col suo sorriso. Quando se lo rimise in faccia era come nuovo, e le diede una pacca affettuosa, ma rapida, sul sedere. Fece un passo indietro, ridacchiando. — Hai proprio fatto un bel colpo — disse con calore. — Ti faccio tanto di cappello, Mitzi!
Non sapevo di cosa stesse parlando. Per un momento pensai che neppure Mitzi lo sapesse, perché le passò come un’ombra sugli occhi, e la mascella le si irrigidì, ma Dambois mi stava già guardando. — Hai perso il treno, a quanto pare — disse allegramente… ma con una certa commiserazione, e con appena un’ombra di disprezzo.
Non che fossi troppo sorpreso per come Dambois aveva accolto Mitzi. C’erano state un po’ di chiacchiere su Mitzi e qualche grosso dirigente dell’Agenzia, compreso Val Dambois. Non aveva grande importanza per me. Diavolo, è dura farsi strada nel mondo della pubblicità. Se una può aiutarsi facendo felici le persone giuste, che male c’è? Ma Mitzi non mi aveva detto che avesse fatto un bel colpo. — Di cosa stai parlando, Val? — chiesi.
— Non te l’ha detto? — Strinse le labbra grassocce, sorridendo. — La causa per risarcimento danni contro la compagnia dei tram. Si sono accordati fuori dall’aula: sei megadollari più gli spiccioli. L’aspettano nella banca dell’Agenzia!
Dovetti provarci due volte prima di riuscire a parlare. — Sei… Sei mil…
— Sei milioni di dollari, esentasse e pronto cassa! — L’uomo gongolava. Era felice come se i soldi fossero suoi… Forse aveva qualche idea per farseli suoi. Mi schiarii la gola.
— Circa questa causa… — cominciai, ma Mitzi mi interruppe, indicando col dito.
— Ecco, quella è la mia — disse mentre le valigie si avvicinavano sul nastro trasportatore. Val si precipitò sulla valigia e la depositò sbuffando vicino a lei.
— Voglio dire… — cominciai. Nessuno mi stava ascoltando.
Dambois disse con aria allegra, passando un braccio grassoccio attorno alla vita di Mitzi… fin dove riuscì a farlo arrivare: — Questa è la prima. Ne mancheranno al massimo una ventina, no?
— No, è l’unica. Mi piace viaggiare con poco bagaglio — disse lei, staccandosi dal suo braccio.
Dambois la guardò con aria di rimprovero. — Sei cambiata molto — si lamentò. — Mi pare che tu sia diventata perfino più alta.
— È perché su Venere c’è meno gravità. — Era una battuta, naturalmente. La massa di Venere solo lievemente più piccola di quella terrestre. Ma non risi, perché mi stavo chiedendo come mai Mitzi si fosse presa un sacco di soldi e io neanche un centesimo… poi mi passò di mente, perché vidi quello che arrivava sul nastro trasportatore.
— Merda! — esclamai. Era la valigia su cui avevo scritto «Maneggiare con cura», il bauletto con gli angoli rinforzati e la serratura doppia. Non erano stati sufficienti a salvarlo. Sembrava che ci fosse passato sopra uno dei trattori dello spazioporto. Uno dei fianchi sembrava un soufflé afflosciato, da cui fuoriusciva un miscuglio aromatico di liquore, acqua di colonia, dentifricio e Dio sa cos’altro.
— Che pasticcio — disse Dambois. Fece schioccare la lingua con aria di impazienza un paio di volte, e si guardò l’orologio. — Volevo offrirti un passaggio — disse, — ma quella roba, nella mia macchina… mi puzzerebbe per una settimana… e poi immagino che tu abbia altre valigie…
Ero stato incastrato. — Andate pure — dissi rassegnato. — Prenderò un taxi. — Li guardai allontanarsi, chiedendomi perché diavolo non fossi entrato anch’io nella causa contro la compagnia dei tram, ma più che altro chiedendomi se dovevo andare di corsa all’ufficio bagagli per chiedere il risarcimento dei danni, oppure aspettare le altre valige.
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