— Ho sentito quello che ha detto, e tutti quanti hanno sentito quello che hai detto tu ! Cristo, Tarb! — Mi aveva lasciato andare le spalle, e adesso aveva l’aria di volermi stringere la gola, invece.
Arretrai. — Pam, lo so di aver sbagliato, ma sono un po’ scosso. Non dimenticarti che hanno cercato di farmi fuori oggi!
— È stato un incidente. L’ambasciata l’ha ufficialmente dichiarato un incidente. Cerca di ricordartelo. È assurdo pensare altrimenti. Perché qualcuno avrebbe voluto ucciderti, quando stai per tornare a casa?
— Non me. Mitzi. Forse qualcuno fra le spie che ha reclutato ha fatto il doppio gioco, e adesso loro sanno quello che lei fa.
— Tarb . — Non c’era veleno nella sua voce questa volta, e neppure rabbia. Era solo un gelido avvertimento. Si guardò intorno, per essere sicura che non ci fosse nessuno. Naturalmente non avrei dovuto dire una cosa del genere mentre c’erano dei Venusiani nell’edificio… era la regola Numero Uno. Feci per dire qualcosa, e lei alzò una mano. — Mitsi Ku non è morta — disse. — L’hanno operata. Sono andata io stesso a trovarla in ospedale. Non aveva ripreso conoscenza, ma la prognosi è buona. Se la volevano morta, avrebbero potuto farlo nella sala operatoria, e noi non l’avremmo mai saputo. Non l’hanno fatto.
— Però…
— Tornatene a letto, Tarb. Le tue ferite sono più gravi di quanto pensassimo. — Non mi lasciò il tempo di replicare. Fece un segno verso le camere private. — Subito. Io devo tornare dagli ospiti… ma prima mi fermo in ufficio per aggiungere qualche nota a una scheda personale. La tua. — Rimase lì ferma, guardandomi mentre me ne andavo.
E quella fu l’ultima volta che vidi la Capo Stazione, e praticamente chiunque altro, per un bel pezzo (i due anni circa del viaggio), perché la mattina seguente venni svegliato da due guardie dell’ambasciata, infilato in una macchina, trasportato allo spazioporto e caricato su una navetta. Dopo tre ore ero in orbita. Dopo tre ore e mezzo ero steso nel bozzolo refrigerante, in attesa che il sonnifero facesse effetto e iniziasse il congelamento. La nave non avrebbe acceso i motori prima di altre nove orbite, cioè più di mezza giornata, ma l’ambasciatore aveva dato ordine di mettermi fuori circolazione. E così fecero.
Quando ripresi conoscenza, un esercito di formiche rosse mi stava mangiando vivo. Era quell’insopportabile formicolio che si prova quando si viene scongelati. Ero ancora nel bozzolo; ma indossavo una tuta termica, che mi lasciava scoperti solo gli occhi. Chino su di me c’era qualcuno che conoscevo. — Salve Tenny — disse Mitzi Ku. — Sorpreso di vedermi?
Lo ero. Dissi che lo ero, ma dubito di essere riuscito ad esprimere quanto lo fossi, perché l’ultimo pensiero che ricordavo, appena prima che il vortice del sonno mi rapisse, era di rimpianto per non aver potuto dare l’addio a Mitzi nel suo letto, e perché presumibilmente non mi si sarebbe più presentata un’altra occasione.
Rimasi anche sorpreso per il suo aspetto. Aveva metà della faccia bendata: si vedevano solo il mento e la bocca, e due sottili fessure per gli occhi. Ma era naturale: quando uno è congelato non guarisce. A tutti gli effetti, Mitzi era uscita solo da pochi giorni dalla sala operatoria. — Stai bene? — chiesi.
Disse subito: — Certo che sto bene. Benissimo! Voglio dire — aggiunse, — che probabilmente non starò tutta bene ancora per qualche settimana, ma posso camminare. Come vedi. — Sorrise. Cioè, penso che sorridesse. — Quando i dottori mi hanno detto che potevo lasciare l’ospedale, ho deciso che di Venere non ne volevo più sapere. Così ho stracciato la richiesta di rinnovo dell’incarico, e mi hanno caricato sull’ultima navetta. Sono rimasta scongelata per un po’, finché non hanno potuto togliermi i punti… ed eccomi qui!
Il formicolio era diventato quasi sopportabile. Il mondo d’improvviso mi apparve più allegro, e cominciai a togliermi la tuta termica. Mitzi annuì: — Così va bene, Tenny! Atterriamo sulla Luna fra novanta minuti. È meglio che ti metta i pantaloni!
Con mia sorpresa, i due marine cacciati dall’ambasciata erano sulla stessa nave. Era una fortuna: senza il loro aiuto, non credo che ce l’avrei fatta a scendere. Mitzi, tutta bendata e ingessata, stava bene. Io no. Mi sentivo male, voglio dire, male davvero. I mezzi di trasporto mi hanno sempre dato qualche fastidio, ma non mi era mai venuto in mente che potesse essere altrettanto brutto sulla Luna.
Venere è un inferno, ma almeno uno su Venere pesa quello che si aspetta di pesare. La Luna è un’altra cosa. Dicono che dopo le prime sei settimane, uno smette di buttarsi il caffè in faccia, quando vuole solo portarlo alle labbra, ma io non ho mai potuto verificarlo… non mi piace quel posto. Se fossimo arrivati con un volo regolare terrestre, saremmo stati trasferiti subito sul pianeta. Ma era una nave venusiana, e doveva fermarsi in quarantena.
E questa è proprio una farsa. Non voglio dire niente contro le Agenzie. Mandano avanti benissimo la Terra. Ma la quarantena dovrebbe servire a tenere lontano le malattie venusiane, giusto? Questo comprende la malattia peggiore di tutte: la peste politica del Conservazionismo. Perciò uno si aspetterebbe che sulla Luna la dogana e l’Ufficio Immigrazione diano una bella torchiata ai Venusiani. Invece l’Immigrazione li fece passare dopo aver dato solo un’occhiata superficiale ai passaporti. Non vogo dire solo l’equipaggio, che tanto sarebbe andato solo alla bettola più vicina. Anche il gruppetto di uomini d’affari e diplomatici venusiani che dovevano trasferirsi sulla Terra venne lasciato passare in un batter d’occhio.
Ma noi Terrestri… Fecero sedere me e Mitzi, controllando magneticamente i nostri documenti, ci frugarono nei bagagli, poi cominciarono con le domande: quanti e quali Venusiani avevamo incontrato negli ultimi diciotto mesi nell’esercizio delle nostre funzioni; a che scopo, e che tipo di informazioni avevamo fornito loro; quanti e quali Venusiani avevamo incontrato al di fuori dell’esercizio delle nostre funzioni; scopo e informazioni fornite. Restammo tre ore in quella stanzetta sigillata, a riempire moduli e a rispondere alle domande, poi il funzionario divenne di colpo serio. — È stato accertato — disse (grammaticalmente, l’espressione era passiva, ma la sua espressione era carica di disgusto), — che certi cittadini terrestri, per assicurarsi una facile ammissione su Venere, hanno compiuto atti rituali di dissacrazione.
Be’, questo era vero. È un altro degli sporchi trucchi venusiani, come i Giapponesi che secoli fa obbligavano gli europei a camminare sulle Bibbie. Quando uno arriva al controllo venusiano ha una scelta. Può sottomettersi a quattro o cinque ore di interrogatorio serrato, vedersi aprire tutti i bagagli, probabilmente subire un’ispezione corporale. Oppure può tare giuramento di ripudiare «la pubblicità, la propaganda, la persuasione via-media, e qualunque altra forma di manipolazione dell’opinione pubblica»; calunniare un po’ la sua Agenzia; e alla fine, se è un buon attore, può passare senza perder tempo. Era tutta una farsa, naturalmente. Ridacchiai e feci per spiegarglielo, ma Mitzi mi precedette. — E proprio vero — disse annuendo con vigore, e con aria di grande disapprovazione, — l’abbiamo sentito dire anche noi. — Mi lanciò un’occhiata di avvertimento. — Sai se sia vero?
Quello dell’Immigrazione mise giù la penna, scrutandola in faccia. — Volete dire che non sapete se succede o no?
Con aria innocente lei disse: — Si sentono tante storie, è vero. Ma quando uno cerca di andare in fondo alla faccenda, non si riesce mai a trovare una prova concreta. Dicono tutti: no, a me non è successo, ma so di uno che aveva un amico, che… Comunque, non riesco a credere che un Terrestre onesto possa fare una cosa del genere. Io di sicuro non lo farei, e neanche Tennison. A parte l’immoralità della cosa, sappiamo benissimo che dovremmo affrontare le conseguenze, tornando a casa.
Читать дальше