Arthur Clarke - Le Guide del Tramonto

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Per sei giorni le immense astronavi, silenziose e immobili, restarono sospese sulle metropoli della Terra. Poi vennero gli ordini, e ai terrestri non restò che obbedire. Ma per ani e anni nessuno potè vederli, gli Esseri venuti con le astronavi. Nessuno poté sapere chi erano. Per quale misteriosa ragione «Essi» non volevano essere conosciuti? Forse perchè (ma nessuno lo sospettò) non volevano essere «riconosciuti»? Un classico della fantascienza che è anche un classico del suspense.

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La luna nascente cominciava a tingere il cielo orientale d’un pallido riflesso latteo. Lassù, come Jean sapeva bene, c’era la base principale dei Superni, in fondo all’immenso cratere di Plutone. Quantunque le astronavi addette ai rifornimenti dovessero essere andate e venute da quella base da oltre settant’anni, soltanto durante la vita di Jean ogni dissimulazione era stata abbandonata e i Superni avevano effettuato arrivi e partenze in piena vista. Nel telescopio con cinque metri d’apertura, le ombre delle grandi astronavi si potevano vedere nitidamente quando, al mattino e alla sera, il sole le allungava per miglia e miglia sulle piane lunari. Siccome tutto quello che i Superni facevano era di immenso interesse per il genere umano, era cominciata una costante vigilanza dei loro arrivi e delle loro partenze, e così si poteva avere un idea delle loro operazioni anche se non dei motivi che le determinavano. Una di quelle grandi ombre era svanita qualche ora prima. Ciò significava, come Jan sapeva, che in un punto dello spazio presso la Luna un’astronave dei Superni attendeva immobile, eseguendo gli ordini che le erano stati impartiti, prima d’iniziare il viaggio per la lontana patria sconosciuta.

Lui non aveva mai visto una di quelle astronavi che ripartivano per il loro pianeta lanciarsi verso le stelle. Se le condizioni di visibilità erano buone, lo spettacolo era visibile da una buona metà del globo, ma Jan non aveva mai avuto fortuna. Non si poteva mai prevedere quando sarebbe avvenuto il decollo, e del resto i Superni non davano nessuna pubblicità all’evento. Jan decise di aspettare altri dieci minuti, prima di scendere a raggiungere gli altri. E quella che cos’era? Niente altro che una meteora, che scivolava mollemente giù dalla costellazione di Eridano. Jan si rilassò, scoprì che la sigaretta si era spenta e ne accese un’altra. Ne aveva fumato circa metà, quando, a mezzo milione di chilometri di distanza, si accese l’iperpropulsione. Dal cuore della radiosità lunare, una minuscola favilla cominciò a salire verso lo zenit. Dapprima il suo movimento fu quasi impercettibile, ma guadagnava velocità a ogni secondo. Salendo, accrebbe il suo fulgore, poi, bruscamente, si affievolì fino a scomparire. Un istante dopo la favilla ricomparve, aumentando in fulgore e velocità. Ora vivida ora fioca secondo un suo ritmo, ascendeva sempre più rapidamente nel cielo, tracciando una fluttuante linea di luce in mezzo alle stelle. Anche ignorandone la vera distanza, l’impressione di velocità che se ne aveva era da mozzare il fiato; sapendo poi che l’astronave in partenza si trovava nello spazio al di là della Luna, la mente era colta da vertigine all’idea delle velocità e delle forze che quel moto implicava. Quello che ora vedeva, si disse Jan, era un sottoprodotto senza importanza di quelle forze. L’astronave stessa era invisibile, già molto più innanzi della luce ascendente. Come un aviogetto si lascia dietro una scia di vapori, così la nave dei Superni lanciata verso l’infinito aveva la sua scia particolare. La teoria generalmente accettata, e non sembrava esservi dubbio della sua fondatezza, era che l’immensa accelerazione dell’iperpropulsione causasse una distorsione locale nello spazio. Ciò che Jan stava ora vedendo era solo la luce delle stelle lontanissime, raccolta e messa a fuoco della sua retina appena le condizioni favorevoli lungo la scia dell’astronave lo permettevano. Era una prova visibile della relatività: la deviazione dei raggi luminosi nelle vicinanze di un colossale campo gravitazionale. La luce fantomatica cominciava ad affievolirsi. Adesso non era più che una minuscola striatura vaga, che puntava verso il cuore della costellazione della Carena, come Jan sapeva che avrebbe fatto. Il mondo dei Superni sembrava essere in quella direzione, approssimativamente, ma poteva gravitare intorno a una qualunque delle migliaia di stelle che si addensavano in quel settore dello spazio. Non c’era modo di stabilire la sua distanza dal Sistema Solare.

Non c’era più niente, ora. Sebbene l’astronave avesse appena cominciato il viaggio, l’occhio umano non poteva vedere più niente. Ma nella memoria di Jan il ricordo di quell’itinerario luminoso continuava ad ardere, fascio di luce lanciato da un faro che non si sarebbe mai affievolito finché lui avesse avuto in sé ambizioni e desideri.

La festa era finita. Quasi tutti gli invitati erano ripartiti a bordo dei loro aerei e sciamavano ora verso i quattro angoli della Terra, tranne qualche eccezione.

Una era Norman Dodsworth, il poeta, che si era ubriacato vergognosamente, ma aveva almeno avuto il buon gusto di svenire prima di dare spettacolo. Con scarsa delicatezza, l’avevano sdraiato all’aperto con la speranza che qualche iena gli desse un rude risveglio. Stando così le cose, era come se Dodsworth non ci fosse affatto.

Tra gli altri rimasti erano George e Jean. Idea che non era stata affatto di George, il quale aveva una gran voglia di tornarsene a casa. Era ovvio che Rupert aveva in serbo qualche sorpresa, probabilmente d’accordo con Jean. George si rassegnò di malumore a qualunque sciocchezza stessero per propinargli.

«Ho tentato di tutto prima di fermarmi su questa» disse Rupert orgogliosamente. «Il problema fondamentale è quello di ridurre l’attrito allo scopo di ottenere la massima libertà di movimento. L’antiquata apparecchiatura a base di tavolo lucido e levigato col suo bravo bicchiere sopra non è tanto male, ma è in uso da secoli, ormai, e io ero sicuro che la scienza moderna poteva trovare di meglio. Ed ecco il risultato. Avvicinate pure le sedie… davvero non te la senti di unirti a noi, Rashy?»

Il Superno parve esitare per una frazione di secondo. Quindi scosse la testa. Avevano forse imparato quel gesto sulla Terra? pensò George.

«No, grazie» rispose. «Preferisco stare a guardare. Un’altra volta, forse.»

«Benissimo… c’è rutto il tempo che vuoi, qualora dovessi cambiare idea più tardi.»

«Ah, bene!» pensò George, più nero che mai, guardando l’orologio. Rupert aveva radunato il gruppetto di amici attorno a un tavolo piccolo ma massiccio e perfettamente rotondo. Il piano, di plastica, era un coperchio molto sottile, che egli sollevò per mettere in mostra un mare scintillante di cuscinetti a sfere strettamente connessi. L’orlo lievemente rilevato del tavolo impediva alle sfere di rotolare via, e George non riuscì a capire a che cosa servissero. Le centinaia di punti di luce riflessa formavano un disegno ipnotico, affascinante, sì che George ne ebbe la mente confusa. Mentre gli altri avvicinavano le sedie, Rupert allungò un braccio sotto il tavolo, prese un disco del diametro di dieci centimetri circa e lo appoggiò sulla superficie dei cuscinetti a sfera.

«Ecco qua» disse. «Appoggiate la punta delle dita su questo disco e vedrete che si muoverà senza fare resistenza.»

George si mise a osservare disco e tavolo con profonda diffidenza. Vide che le lettere dell’alfabeto erano disposte a intervalli regolari, anche se non in base a un preciso ordine di successione, lungo la circonferenza del tavolino, Inoltre c’erano i numeri dall’1 al 9, sparsi alla rinfusa tra le lettere, e due cartoncini con le parole «sì» e «no», l’uno di fronte all’altro, ai margini del tavolino.

«A me sembra un gioco di bussolotti» mormorò. «Mi stupisce che ci sia gente che lo prenda sul serio ancora oggi.» Si sentì meglio, dopo essersi alleggerito con questa piccola protesta rivolta tanto a Jean quanto a Rupert. Rupert si atteggiava a uomo di larghe vedute, ma tutt’altro che credulo, con soltanto un distaccato interesse scientifico per fenomeni del genere, Jean, d’altra parte… George, a volte era un po’ preoccupato nei suoi riguardi. Lei sembrava convinta che ci fosse qualcosa di molto vero in quei giochetti di telepatia e di preveggenza.

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