Arthur Clarke - Le Guide del Tramonto

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Per sei giorni le immense astronavi, silenziose e immobili, restarono sospese sulle metropoli della Terra. Poi vennero gli ordini, e ai terrestri non restò che obbedire. Ma per ani e anni nessuno potè vederli, gli Esseri venuti con le astronavi. Nessuno poté sapere chi erano. Per quale misteriosa ragione «Essi» non volevano essere conosciuti? Forse perchè (ma nessuno lo sospettò) non volevano essere «riconosciuti»? Un classico della fantascienza che è anche un classico del suspense.

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Fu solo dopo avere espresso la sua osservazione che George si accorse che la protesta toccava anche a Rashaverak. Lanciò nervosamente un’occhiata nella sua direzione, ma il Superno non dimostrò nessuna reazione. La qual cosa, com’era naturale, non significava assolutamente nulla. Ognuno aveva preso il suo posto. Nel senso delle lancette dell’orologio, sedevano Rupert, Maia, Jan, Jean, George e Benny Shoenberger. Ruth Shoenberger sedeva discosta, al di fuori del circolo, con in mano un quaderno. Ruth aveva fatto qualche obiezione a partecipare alla seduta, la qual cosa aveva indotto Benny a osservare in tono sarcastico che al mondo c’era ancora gente che prendeva sul serio il Talmud. Comunque, Ruth pareva dispostissima a fungere da segretaria.

«Ora» disse Rupert «vi prego di ascoltarmi attentamente. A beneficio degli scettici come George, sarà bene mettere molto in chiaro subito questo: ci sia o non ci sia un elemento soprannaturale in questa faccenda, vi dico che la cosa funziona. Personalmente ritengo che si possa dare una spiegazione di carattere strettamente meccanico. Quando noi poniamo la punta delle dita sul disco, anche se possiamo tentare d’influire sui suoi movimenti, il nostro subcosciente comincia a farci degli scherzi. Ho analizzato moltissime sedute di questo genere e non ho mai trovato risposte che qualcuno del gruppo potesse non sapere o non indovinare… anche se spesso nessuno ne era consapevole. Ad ogni modo, vorrei eseguire l’esperimento in queste circostanze, diremo così, peculiari.»

La Circostanza Peculiare se ne stava seduta a osservarli in silenzio, ma indubbiamente non con indifferenza. George si chiese che cosa pensasse esattamente Rashaverak di simili prodezze. Erano forse, le sue, le reazioni di un antropologo che osserva qualche primitivo rito religioso? Tutta la situazione era semplicemente grottesca, e George si sentì ridicolo come non gli era mai capitato di sentirsi in vita sua.

Se anche gli altri si sentivano ridicoli, non lo dimostrarono. Solo Jean era accesa in volto, eccitata; ma forse erano state le bevande alcoliche.

«Tutto a posto?» disse Rupert. «Bene.» Fece una pausa a effetto, quindi, senza rivolgersi a nessuno in particolare, domandò: «C’è forse qualcuno?»

Sotto le dita George sentì il disco vibrare. Non era sorprendente, data la pressione esercitata su di esso dalle sei persone della catena. Quindi il disco cominciò a scivolare lungo due curve, tracciando un piccolo otto, ter-minato il quale rimase immobile nel centro, da dove si era mosso.

«C’è qualcuno?» ripeté Rupert. E in un tono di più normale conversazione soggiunse: «Spesso bisogna aspettare da dieci minuti a un quarto d’ora, prima che si cominci. Ma alle volte…»

«Ssst!» fece Jean.

Il disco aveva ripreso a muoversi e ora stava percorrendo un grande arco oscillando fra i cartellini del «sì» e del «no». A fatica, George represse un sorriso sarcastico. Che cosa avrebbe dimostrato quel disco, pensò, se si fosse fermato davanti al no? Ricordò il vecchio scherzo: «Se ci sei batti un colpo, se non ci sei battine due!».

Ma il disco si fermò davanti al «sì», brevemente, poi ritornò al centro della tavola. In un certo senso pareva vivo, ora, vivo e in attesa di una nuova domanda. Nonostante tutto George cominciò a sentirsi impressionato.

«Chi sei?» «domandò Rupert.

Le lettere finirono compilate nettamente, a una a una, dal disco, senza la minima esitazione. Il piattello rotondo saettava qua e là per il tavolo come una cosa animata, spesso così veloce che George non riusciva a tenerci sopra le dita. Avrebbe potuto giurare che non contribuiva assolutamente al suo movimento; e, guardandosi intorno, rapidamente, non notò niente di sospetto sulla faccia dei suoi amici. Sembravano assorti e in attesa come lui stesso.

IOSONOTUTTI, compilò il piattello e tornò al suo punto di equilibrio.

«Io sono tutti» ripeté Rupert.

«Una risposta tipica. Evasiva e niente stimolante. Probabilmente significa che non c’è altra cosa, qui, all’infuori dell’effetto combinato delle nostre menti.» Tacque per qualche istante, evidentemente per scegliere la domanda successiva. Infine si rivolse all’aria ancora una volta.

«Hai un messaggio per qualcuno dei presenti?»

«No» rispose prontamente il disco.

Rupert si guardò intorno.

«Dobbiamo fare noi. A volte comunica di sua iniziativa, ma stavolta dobbiamo rivolgergli domande precise. C’è nessuno che voglia cominciare?»

«Pioverà domani?» scherzò George.

Immediatamente il piattello cominciò ad andare e venire nello spazio tra il «sì» e il «no».

«È una domanda futile» disse Rupert in tono di rimprovero. «C’è sempre la probabilità che piova in qualche zona e ci sia siccità in altre. Non bisogna fare domande che implichino ambiguità di risposta.»

George si sentì schiacciato e lasciò a qualche altro la domanda successiva.

«Qual è il mio colore preferito?» domandò Maia.

BLU, fu la risposta giusta.

«Esattissimo!»

«Questo non prova niente. Almeno tre persone presenti sanno la risposta» obiettò George.

«Qual è il colore preferito di Ruth?» domandò Benny.

ROSSO.

«È vero, Ruth?»

La segretaria alzò lo sguardo dal quaderno dove annotava domande e risposte.

«Sì. Ma Benny lo sa, e fa parte della catena.»

«Io non lo sapevo affatto» protestò Benny.

«Lo sapevi benissimo! Non so più quante volte te l’ho detto.»

«Ricordi del subconscio» mormorò Rupert. «Avviene spesso. Ma non possiamo fare qualche domanda un po’ più intelligente, per favore? Ora che la seduta è cominciata così bene, non vorrei vederla finire in niente.»

Cosa strana, la stessa banalità del fenomeno cominciava a impressionare George. Era certissimo che la spiegazione non avesse niente a che vedere col mondo soprannaturale. Come aveva detto Rupert, il disco rispondeva semplicemente ai loro inconsci movimenti muscolari. Ma era il fatto in sé che sorprendeva e colpiva: lui non avrebbe mai creduto che si potessero ottenere risposte tanto pronte e precise. Una volta tentò di vedere se potesse influire sul piattello facendogli comporre il suo nome: riuscì a ottenere la G, ma fu tutto: il resto non aveva senso. Era virtualmente impossibile, decise, che una persona sola fosse in grado di tenere il disco sotto controllo a insaputa degli altri.

Dopo una trentina di minuti, Ruth aveva scritto oltre una decina di messaggi, alcuni dei quali molto lunghi. Vi figuravano ogni tanto errori di ortografia e anomalie grammaticali, ma in numero ridottissimo. Quale che fosse la spiegazione, George era convinto ora di non contribuire consapevolmente ai risultati. Più volte, mentre una parola era in fase di composizione, aveva creduto di prevedere la lettera successiva e perciò il significato del messaggio. Ma ogni volta il piattello si era poi diretto verso tutt’altra lettera, formando una parola del tutto inattesa. Spesso, infatti, l’in-tero messaggio, dato che non c’era soluzione di continuità tra una parola e l’altra, era totalmente privo di senso fino a quando non era ultimato e Ruth non lo aveva riletto.

Quell’esperienza dava a George l’impressione soprannaturale di essere in comunicazione con una mente autonoma, dotata di volontà sua propria. E nello stesso tempo non c’era una prova conclusiva né in un senso né nell’altro. Le risposte erano così banali, così ambigue! Che cosa si poteva tirar fuori per esempio, da:

CREDERENELLUOMOLANATURAECONVOI?

Pure ogni tanto c’erano indizi di verità profonde, addirittura sconvolgenti:

RICORDACHELUOMONONESOLOPRESSOLUOMOESISTEILPAES

EDIALTRI.

Ma era una cosa naturale, che tutti sapevano: tuttavia non poteva forse il messaggio riferirsi ad altri che non i Superni?

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