Stava già per dirigersi verso la porta, quando un altro invitato ne emerse. Si era fatto così buio, ora, che George non poté vedere chi fosse. «Ehi, laggiù!» gridò. «Ne avete avuto abbastanza anche voi?»
Il suo invisibile compagno si mise a ridere. «Rupert sta proiettando i suoi film. Io li ho già visti tutti» disse.
«Una sigaretta?» offrì George.
«Grazie.»
Alla fiamma dell’accendino — George aveva la mania di quelle anticaglie
— riconobbe finalmente l’altro invitato, un giovane negro, straordinariamente bello. Gliene avevano detto il nome, ma George si era fatto un dovere di dimenticarlo subito, assieme a quelli degli altri venti sconosciuti che gli erano stati presentati. Tuttavia, c’era qualcosa di familiare nella fisionomia del giovane, e George a un tratto intuì la verità.
«Non credo che ci siamo conosciuti molto a fondo» disse «ma non siete forse il nuovo cognato di Rupert?»
«Esattamente: sono Jan Rodricks. Tutti dicono che Maia e io ci assomigliamo moltissimo.»
George si domandò se non dovesse esprimere a Jan la sua commiserazione per quel parente di recentissima acquisizione, ma pensò che fosse meglio lasciare il poveretto libero di scoprirlo da sé. Del resto, poteva anche darsi che questa volta Rupert si decidesse a mettere la testa a posto.
«Sono George Greggson» disse. «È la prima volta che venite a una delle famose feste di Rupert?»
«Sì. C’è da conoscere un mucchio di gente nuova in occasioni come questa.»
«E non soltanto di questa Terra» soggiunse George. «È stata la prima occasione che mi si è presentata di conoscere personalmente un Superno.»
L’altro esitò un attimo prima di rispondere, e George ebbe la sensazione di aver colpito un punto debole. Ma la risposta non rivelò niente.
«Nemmeno io ne avevo mai visto uno prima d’ora, tranne che alla TV.»
A questo punto la conversazione cominciò a languire, e dopo un istante George si accorse che Jan aveva voglia di starsene solo. L’aria si faceva fredda, comunque, per cui, scusatosi, scese a raggiungere gli altri. La giungla taceva, ora. Nell’appoggiarsi con le spalle alla presa d’aria dell’impianto di condizionamento, Jan non udì altro suono se non il ronzio lieve della casa che respirava con i suoi polmoni meccanici. Il giovane si sentiva malinconico e solo, ed era così che voleva essere. Ma si sentiva anche profondamente deluso e scoraggiato, che era proprio ciò che non voleva assolutamente essere.
Nessuna Utopia potrà mai dare soddisfazione a tutti, in ogni momento. A misura che le condizioni materiali migliorano, gli uomini elevano in proporzione le loro aspirazioni e non si accontentano più di poteri e beni che un tempo sarebbero parsi loro al di là di ogni speranza più audace. E anche quando il mondo esterno ha concesso tutto quello che può, rimangono pur sempre le esigenze della mente e i desideri nostalgici del cuore. Jan Rodricks, sebbene apprezzasse molto di rado la sua fortuna, in un’epoca precedente sarebbe stato ancora più scontento e insoddisfatto. Un secolo prima il colore della sua pelle sarebbe stato un ostacolo tremendo. Oggi, non aveva più nessun significato. Passato anche il senso di superiorità, venuto come reazione, che i negri avevano trovato nel ventunesimo secolo. La parola «negro» non era più tabù tra persone educate e veniva usata da chiunque senza il minimo impaccio. Non aveva più contenuto emotivo di quanto non ne potessero avere etichette da repubblicano o metodista, conservatore o liberale.
Il padre di Jan era stato un affascinante scozzese, irrequieto e irresponsabile, che si era fatto un certo nome come guaritore di professione. La sua morte, alla precoce età di quarantacinque anni, era stata provocata dall’eccessivo consumo del più celebrato prodotto del suo Paese. La signora Rodricks, ancora viva e vegeta, insegnava teoria delle probabilità all’Università di Edimburgo. Era una caratteristica dell’estrema mobilità del genere umano ai primordi del XXI secolo, che la signora Rodricks, la quale era d’un nero ebano, fosse nata in Scozia, mentre il suo biondo marito senza patria fissa aveva passato quasi tutta la sua vita ad Haiti. Maia e Jan non avevano mai avuto una casa loro, ma avevano sempre fatto la spola tra le famiglie paterna e materna come due traghetti. La cosa era stata molto divertente, ma non aveva certo contributo a temperare l’instabilità di carattere che entrambi avevano ereditato dal padre. A ventisette anni, Jan aveva ancora parecchi anni di vita universitaria davanti a sé prima di poter pensare seriamente alla carriera. Aveva superato i primi esami senza sforzo, seguendo un programma di studi che un secolo prima sarebbe parso molto strano. Si interessava di fisica, matematica, filosofia e musica, ed era un pianista di molto talento. In un triennio contava di laurearsi in fisica applicata, con l’astronomia come disciplina sussidiaria. Tutto ciò avrebbe sottinteso un’intensa attività, ma Jan se la prendeva alla leggera. Studiava presso l’istituto più splendidamente situato nel mondo: l’Università di Città del Capo, ai piedi della Table Mountain.
Non aveva preoccupazioni materiali, eppure si sentiva scontento, angustiato e non vedeva rimedio alla sua condizione. A peggiorare questo stato di cose, c’era la felicità di Maia, che sottolineava la causa principale della malinconia di Jan.
Jan soffriva ancora di quella romantica illusione, causa di tanta infelicità e tanta poesia, secondo cui un uomo non ha che un solo vero amore in vita sua. Molto più tardi di quanto non accadesse alla maggioranza dei giovani, Jan aveva dato il suo cuore per la prima volta a una ragazza nota più per la sua bellezza che per la sua costanza. Rosita Tsien affermava di discendere dalla dinastia Manciù, e non mentiva. Aveva infatti ancora molti sudditi, soprattutto nelle Facoltà di Scienze dell’Università. Jan era caduto prigioniero della delicata bellezza di Rosita, e l’idillio si era protratto abbastanza a lungo da rendere più doloroso il finale. Lui non riusciva a capire che cosa avesse fatto crollare tutto. Naturalmente gli sarebbe passata, come era successo ad altri, ma per il momento Jan trovava insopportabile la vita. L’altra sua causa di rodimento era meno facilmente rimediabile perché connessa al peso che il dominio dei Superni esercitava sulle sue aspirazioni. Jan era un romantico non soltanto col cuore ma anche col cervello. Come molti altri giovani, dopo la conquista dello spazio, aveva lasciato che sogni e fantasia vagassero per gli inesplorati oceani del cosmo. Un secolo prima, l’uomo aveva messo il piede sulla scala che avrebbe potuto portarlo alle stelle. Ma proprio in quell’istante, la porta dei pianeti gli era stata chiusa in faccia. I Superni avevano imposto pochi divieti assoluti su alcuni aspetti delle attività umane (quella bellica era stata forse la più importante), ma le ricerche nel campo dell’astronautica erano virtualmente cessate. La sfida portata dalla scienza dei Superni era troppo grande. Almeno per il momento, l’uomo, scoraggiato, si era rivolto ad altre attività. Non valeva la pena di evolvere razzi sempre più perfetti, quando i Superni avevano mezzi di propulsione infinitamente superiori, basati su principi di cui gli uomini non avevano mai nemmeno avuto sentore. Poche centinaia di uomini avevano visitato la Luna, allo scopo di stabilirvi un osservatorio astronomico. Avevano viaggiato come passeggeri in una piccola astronave concessa dai Superni, e con motori a razzo. Era ovvio che si poteva apprendere ben poco dallo studio di un aeromobile così antiquato.
L’uomo, quindi, era ancora prigioniero del suo pianeta. Un pianeta molto più giusto e saggio, ma anche molto più piccolo di quel che non fosse stato un secolo prima. Abolendo guerra, miseria e malattie, i Superni avevano anche abolito l’avventura.
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